Ezra Klein spiega la polarizzazione americana

Ezra Klein

Ezra Klein prova con successo a spiegare la polarizzazione della società americana in Why we’re polarized, un libro interessante e pieno di spunti.

Nel 1960 solo il 4-5% degli elettori americani si dichiarava sconvolto dall’ipotesi di un figlio sposato con un elettore di un partito diverso dal proprio. Nel 2008 quella percentuale era salita al 20% tra i democratici e al 27% tra i repubblicani. Nel 2010 le stesse percentuali erano ulteriormente incrementate arrivando rispettivamente al 33% per i democratici e al 49% per i repubblicani.

Questi dati aiutano a comprendere quanto sia diminuita la tolleranza politica dell’elettore americano durante anni in cui, per entrambi gli schieramenti, l’idea che l’altro partito potesse governare è diventata insopportabile. L’aspetto più interessante è che questo atteggiamento partigiano non è sostenuto tanto da sentimenti positivi per la propria fazione ma soprattutto da sentimenti negativi per l’altra parte.

I sostenitori dei due schieramenti si disprezzano ritenendo una minaccia la possibilità di essere governati dagli oppositori.

Secondo Ezra Klein ciò è dovuto anche alla crescente differenziazione di due partiti che hanno bisogno di distinguersi agli occhi degli elettori. Non è un caso se oggi anche l’elettore che segue poco la politica riesca più facilmente a comprendere le differenze tra partito democratico e repubblicano.

Questo ci porta alla tesi centrale di Why we’re polarized di Ezra Klein. Esposta sin dalle prima pagine con estrema chiarezza e linearità, l’idea è che gli attori politici, i media, gli elettori e tutta la società stiano diventando sempre più polarizzati. Ciò sembra essere causato da una serie di meccanismi che portano tanto i politici quanto i giornalisti a ricercare consensi ed ascolti rivolgendosi ad una società sempre più divisa in blocchi.

Secondo Ezra Klein, troppo spesso i problemi sistemici vengono ridotti in narrazioni personalizzanti rendendo impossibile comprendere il quadro generale. Un esempio di questa tendenza alla narrazione personalizzata è il racconto della vittoria di Donald Trump. Secondo Klein, infatti, la vittoria di Trump non è un cortocircuito improvviso ma un evento perfettamente coerente con le informazioni desumibili dalle precedenti tornate elettorali. Trump dovrebbe essere considerato soprattutto come una conseguenza sistemica del passato e poi come causa della polarizzazione presente e futura. Per Klein la sua vittoria è solo un punto d’arrivo provvisorio di un processo in evoluzione.

Perché siamo polarizzati? La risposta di Ezra Klein

Riprendendo vari studi di psicologia politica, Ezra Klein spiega come la nostra visione del mondo abbia sempre portato ad abbracciare un partito o l’altro. Ciò che contraddistingue il presente è che oggi quella visione tende ad essere radicalmente rafforzata dalla scelta. Questo è vero soprattutto per gli elettori che seguono con molta attenzione la politica. Questa diventa una delle tante dimensioni attraverso cui esprimere ciò che si è, la propria identità. Infatti, mentre l’elettore poco impegnato, essendo mosso soprattutto da un interesse personale, si chiede cosa la politica possa fare per lui, l’elettore impegnato si chiede cosa dica di sé il sostegno ad un partito. Soprattutto per questa fetta dell’elettorato l’identità politica è un mezzo di autoespressione. Tuttavia, a differenza delle altre, l’identità politica ha acquistato una rilevanza notevole riuscendo ad influenzare e attivare anche molte altre identità che a loro volta rafforzano quella politica. In questo contesto ogni conflitto, che sia di natura razziale, religiosa, geografica o culturale attiva tutti gli altri rendendo l’elettorato sempre più diviso in due blocchi. Soprattutto per chi la segue con molta attenzione, la politica diventa unasuper identità” dato che il partito democratico e quello repubblicano sono nettamente divisi su tutte queste questioni.

Nonostante la nostra convinzione, il modo in cui ragioniamo non è perfettamente razionale dal momento che è sempre il risultato di una mediazione con persone, dati, fatti che selezioniamo escludendo dal processo logico tutto ciò che potrebbe contraddire l’ipotesi di partenza. Alla voglia di non smentirci da soli si aggiunge poi anche l’esigenza di affidarsi a delle scorciatoie, tra cui rientrano anche partiti, giornalisti, analisti, amici e conoscenti perché è impossibile avere un’opinione su tutto. Ciò è vero soprattutto quando non si ha il tempo o la competenza per approfondire una questione. Condividendo con questi attori dei valori di base,  si tende anche a condividere le loro valutazioni su questioni specifiche. Ma ogni attore ha come obiettivo primario il perseguimento dei suoi interessi. Per quanto possa essere comprensibile affidarsi ai partiti per sapere cosa pensare di alcune questioni, il loro obiettivo non è la ricerca della verità o del giusto ma il consenso elettorale. In modo analogo è facile comprendere come anche i giornalisti, gli analisti e gli opinionisti facciano lo stesso per raggiungere i loro obiettivi.

Non a caso, il giornalismo politico ha un peso notevole nell’alimentare questo processo. Klein, che è tra i fondatori di Vox, nota come oggi il giornalismo politico sia a tutti gli effetti un prodotto di intrattenimento in competizione con Netflix, almeno per alcuni fruitori. Fino a pochi anni fa l’informazione politica era parte di un’offerta più vasta, soprattutto se considerata nel contesto di canali generalisti. Ora per alcuni consumatori, soprattutto quelli più appassionati, l’informazione politica è uno dei prodotti di intrattenimento principale. E se, come si è visto, gli elettori più informati sono anche quelli più polarizzati è anche perché i media enfatizzano le differenze tra i partiti e non ciò che li accomuna. Il richiamo alle differenze e l’individuazione di un nemico comune sono fondamentali per vincere in un mercato dell’attenzione sempre più affollato e competitivo. In questo senso, soprattutto se si pensa a reti come Fox News, il giornalismo, anche al di là della presunta imparzialità, non è neanche più d’opinione ma di identità.

Ecco perché all’aumentare della quantità di informazione politica consumata cresce anche la distorsione della propria visione.

Questo aiuta a comprendere perché, anche se i ragionamenti fossero perfettamente razionali, le opinioni finali a cui si giunge non sono necessariamente esatte. Anzi, il lavoro di Klein dimostra come, in questa prospettiva, avere più informazioni spesso non risolva il problema ma lo aggravi. Paradossalmente un elettorato più informato può essere anche più polarizzato. Ciò sia perché per confermare le idee in cui si crede si è disposti ad eliminare informazioni contraddittorie, sia perché le notizie con cui si viene a contatto sono sempre più selezionate per assecondare l’idea che si ha.

Provando a capire come e perché l’identità politica sia diventata così predominante, Klein evidenzia come gli elettori sembrino dei tifosi motivati da un sentimento d’appartenenza più che attori razionali. Tutto ciò che percepiscono come “loro”, estraneo dal loro gruppo di appartenenza, viene trattato con ostilità.

Per l’uomo la ricerca dell’appartenenza ad un gruppo e la competizione con altri gruppi è naturale, anche a costo di risultati complessivi peggiori per sé e per gli altri. Tuttavia, diventa difficile gestire la coesistenza tra gruppi in una società in cui il livello di polarizzazione raggiunge questa intensità. A questo proposito Klein spiega come la “super identità” politica sita influenzando il giudizio delle persone anche riguardo scelte lavorative, perfino a discapito della produttività dato che tutto ciò porta a selezionare persone più simili e non più competenti.

Dopo Obama, dopo Trump

Obama ha più volte espresso consapevolezza di questo fenomeno affermando di volerlo arginare nel corso della sua presidenza. Ma dopo la sua permanenza alla Casa bianca l’America era molto più polarizzata. È lo stesso Obama a riconoscerlo.

L’elettorato bianco, pur non essendo diventato una minoranza ha risposto con forza alla minaccia di un cambiamento culturale o ad un suo inizio. Per comprendere la natura di questa minaccia percepita, Klein offre l’esempio dell’attività pubblicitaria dei grandi brand. Come spiega l’autore, le grandi aziende cercano di attirare consumatori più giovani, urbani e diversificati e questo porta la maggior parte delle persone più anziane che votano a percepire un clima che cambia, cosa che li spaventa. La composizione demografica degli elettori porta le urne ad essere una sorta di macchina del tempo, riportando indietro di dieci anni gli equilibri riguardo temi come razza e religione. La sinistra può avere un potere culturale che però solo occasionalmente può tradursi in politica mentre la destra esercita il potere politico sentendosi sempre più respinta ed offesa culturalmente. Una buona fetta dell’elettorato americano si sente minacciato da quello che, paradossalmente, più che un cambiamento reale è una percezione di cambiamento dovuta all’esigenza dei grandi marchi di curare un’immagine che tenda al futuro. Tra le tante componenti che hanno portato Trump alla vittoria c’è sicuramente anche la capacità di intercettare le paure di quel segmento del mercato elettorale.

Molto interessante è anche la tesi di Klein, in accordo con il politologo Eric Kaufman, secondo cui la chiave per comprendere i populismi è il risentimento culturale più che economico. Sarebbe stato il risentimento culturale e razziale ad attivare l’ansia economica e non il contrario, secondo l’autore.

Nonostante questa ipotesi sia plausibile, è difficile stabilire con precisione dove finiscano le conseguenze di un processo e dove inizino quelle di altre. Anche se il risentimento culturale può aver svolto un ruolo importante, ci limitiamo qui a sostenere che nella realtà gli elementi che hanno portato a quella rabbia  sono tantissimi e che ridurre tale complessità ad un unico fattore può essere fuorviante. Nonostante ciò, ragionare sull’impatto che il risentimento culturale ha avuto su questo processo è comunque molto utile per comprendere il quadro generale.

La vittoria di Biden potrebbe far pensare che quanto scritto fin qui non sia più un problema. In realtà se Ezra Klein ha ragione siamo solo all’inizio di un processo che potrebbe evolversi in modo importante. Starà a Biden cercare di ricucire le ferite di una società sempre più divisa. Ma se l’analisi di Why we’re polarized è corretta, Biden è solo uno dei tanti attori rilevanti in un processo che coinvolge cittadini, media ed esperti. Ci sarà la volontà di mettere in discussione quegli elementi strutturali che portano tutti questi attori ad alimentare la polarizzazione? Sarà interessante notare cosa accadrà nei prossimi anni e capire se questa chiave di lettura possa o meno essere utilizzata anche per altre realtà.

Fonte immagine: ufficio stampa

A proposito di Salvatore Tramontano

Studia Mass Media e Politica presso l'Università di Bologna. Scrive per capire cosa pensa.

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