Francesco Frigione e Ugo Derantolis, autori de “Le ragioni nascoste”: intervista e recensione

Francesco Frigione

Francesco Frigione e il suo eteronimo collega Ugo Derantolis sono gli autori di Le ragioni nascoste, un libro singolarissimo, per contenuto e forma, edito dalla GM Press.

Quello de Le ragioni nascoste, libro di Francesco Frigione e Ugo Derantolis, è un insieme di racconti frammentari, senza ordine, né tempo. Il suo è uno scenario fantasmagorico, una rete di recondite rivelazioni nascoste e ingarbugliate. Ironia, ilarità e saggezza caratterizzano questo libro dalla scrittura lineare, ma non semplice; a tratti la prosa assume verticalità lirica e sfumature poetiche, da rimanerne interdetti quando si fa “seria”, quasi disarmati (come avviene in  “Cosa resta tra le dita” o in “La donna che non sapeva  aspettare”). Con la maestria di chi è avvezzo alla scrittura – o forse di chi semplicemente è dotato di talento naturale e potentissimo – l’autore ci fa sorridere, e talvolta ridere, quando scherzosamente porta all’esasperazione avvenimenti banali e comici che diventano fonte di messaggi filosofici di grande spessore e complessità. Il lettore si abitua al mistero delle ragioni profonde e invisibili già dai titoli: geniali, accattivanti, irragionevoli (La merda puzza, Indagine di un cittadino al di sotto di ogni sospetto).
Tutto in questi racconti ci rivela come l’assurdità che li caratterizza contiene in sé verità attualissime o eterne.

L’eteronimo Ugo Derantolis si occupa della seconda parte del libro e fa da umile amanuense dell’abissale Lallo De Bonis: filosofo dall’identità mistica e sconosciuta, eppure la figura più stimolante del libro. Un Socrate dai toni mai visti prima, Lallo De Bonis affolla ossessivamente le menti dei suoi discepoli con abissi di vertiginose metafore. Chi l’avrebbe mai detto che dietro ad un’affermazione come: «La cozza pelosa tarantina non è una cozza!» si celasse il principio della dialettica hegeliana? Stolti voi che criticate perché non comprendete che i giovani al seguito di Lallo son sì tutti folli, ma folli per la voluttà di un sapere che illumina la coscienza di chiarore iperuranio!

Leggiamo l’intervista ai due autori, Francesco Frigione e Ugo Derantolis.

Francesco Frigione e Ugo Derantolis: intervista agli autori de Le ragioni nascoste

Cosa significa per Francesco Frigione “essere scrittore”? E per Ugo Derantolis?

FF: Per prima cosa, “essere scrittore” mi permette di cedere alla seduzione di imbrigliare i fatti, alterare le apparenze del linguaggio e provare le emozioni con lo stesso trasporto di quando ero bambino.
Insomma, scrivendo cado in una vertigine, in una dimensione sognante e dionisiaca che si oppone alla brutalità delle cose concrete e a cui mi appiglio per poi risalire in superficie. Sottrarmi alla traumaticità degli eventi, irridendoli e beffandoli, è la gratificazione più immediata del rapporto con l’immaginazione al servizio della scrittura. Questa frequentazione con i contenuti fantastici, d’altronde, è il carburante di qualsiasi esperienza creativa. Procedendo, però, arrivo a un secondo livello, di fascinazione “numinosa”. Qui rispondo a un richiamo estraneo all’Io, e tanto più procedo soggettivamente tanto più mi allontano da me stesso. È la materia immaginativa a dettarmi la forma. La trama, i personaggi e lo stile che il racconto assumono allora non sono più giochi arbitrari della fantasia, ma manifestazioni necessarie di un volere impersonale e archetipico. Queste riflessioni psicologiche hanno anche una precisa ricaduta estetica. Mi spiego meglio: seguendo il filo delle mie fantasie, devo maggiormente badare, se desidero consegnare la mia esperienza al lettore, all’esattezza del linguaggio, alla plausibilità fisica delle descrizioni, alla cura dei dettagli, insomma alla fedeltà dei contenuti e all’equilibrio del ritmo narrativo. Questa faccenda del ritmo mi diverte: quando suono la chitarra, a un certo punto, finisco sempre per smarrirlo. È una cosa che fa andare in bestia gli amici con cui mi accade talvolta di suonare e a me procura imbarazzo. Mi sembra che sia una tara originaria alla quale non riesco a sottrarmi. Scrivendo, invece, assumo un particolare controllo della cadenza e sento di riuscire a riprodurre l’autentica pulsazione del flusso immaginativo. Perché con la scrittura limo strato dopo strato, finché i suoni e le pause non mi convincono davvero.
In conclusione, scrivere mi regala la sensazione di non essere più solo, di trovarmi in benevola compagnia del mio mondo interiore e di quello esterno, entrambi avendo acquisito temporaneamente contorni più amichevoli.

UD: Ascoltando le affermazioni di Francesco mi viene un po’ da sorridere, lo dico con affetto e ammirazione; mi sorprende sempre questa attenzione teoretica che pone a ogni cosa in cui inciampa. Devo dire, però, di affrontare la scrittura in modo completamente differente e di non dispiacermene affatto. Per me scrivere è un’esperienza naturale e spontanea come respirare: ho sempre scritto, sin da bambino, e non ho mai smesso, senza interrogarmi sul come e sul perché. Di solito mi dedico all’inchiesta sociale e all’indagine politica più che all’analisi del mondo interiore. Se mai mi capita di accennare a processi psicologici, come nei resoconti debonisiani de “Le ragioni nascoste”, lo faccio per dovere di cronaca e ossequio alla materia filosofica trattata. Trovo piuttosto che sia la realtà in sé a essere eccitante, perché è con tutta evidenza piena di buchi, di voragini, di abissi in cui rischiamo di cadere a ogni passo, come quando camminiamo per le strade di Roma… Sa, Roma è una città metafisica quanto Napoli, e di questi tempi la sua forma materiale ne disvela ancor più la natura occulta: un mondo fatto di Gruyère. Naturalmente, Napoli offre più spunti magici e demonici e Roma con il suo atavico cinismo rammenta gli antichi cortei trionfali, dove più che al generale baldanzoso che sfila sotto l’arco di trionfo badi allo schiavo che sussurra: “ricorda che devi morire!”. Un’allegoria del fallimento esistenziale, in definitiva. Scrivere di queste epifanie del nulla mi appaga sempre. La realtà per me non è altro che un labirinto infestato fino al midollo di manifestazioni immaginarie, è un vero trip lisergico, e ogni teorizzazione psicologica al riguardo mi sembra riduttiva. Per converso, adoro coloro che interpretano la realtà in modo personale e innovativo. Di queste menti tratto con immenso godimento nel recensire libri, spettacoli teatrali, cinematografici e quant’altro. Qualche prova di ciò è contenuta anche nel libro. In definitiva, la “ragione nascosta” alla base de “Le ragioni nascoste”, a mio parere, consiste nella scommessa avviata con Francesco di contagiare il lettore col piacere del racconto breve. Anche perché l’Italia è un Paese che negli ultimi anni ha completamente negletto il genere, nel quale in passato si sono cimentati autori di primo piano della nostra letteratura, come Buzzati, Levi e Calvino, solo per evocare i primi che affiorano alle labbra. Senza parlare dell’importanza che questa forma di espressione letteraria riveste nella cultura anglosassone e in quella latino americana. Qui da noi, invece, si pubblicano caterve di romanzi noir, mentre della poesia e del racconto si è quasi persa traccia.

La matrice fantasiosa del libro è evidente, ma vi sono in Le ragioni nascoste racconti in cui spunti del reale e/o autobiografici ne hanno ispirato la scrittura?

FF: Certamente. Mi sarebbe difficile scrivere di cose totalmente sconosciute. Da questo punto di vista mi sono attenuto al consiglio di Hemingway: “Scrivi solo di ciò che conosci!”. Tanto poi, procedendo, approdi comunque a qualche lido ignoto… aggiungo. Anzi proprio in questo consiste il piacere: derubricare la realtà ordinaria dal registro delle cose note. Parlare di Buenos Aires, ad esempio, dove ho vissuto e per cui nutro un immenso amore, come ho fatto in “Marta. La donna che amava attendere”, ha significato eseguire sia un esorcismo che un’evocazione. Una maniera onirica di trattare il passato, proiettandolo in un futuro misterioso e reverso, fatto di sdoppiamenti e scomparse.  In “Cosa resta tra le dita”, invece, ho cercato di trasformare un sogno reale in un racconto: un’operazione difficile perché la materia onirica grondava ad ogni passaggio e togliere quella ganga vischiosa dalle immagini mi è risultato particolarmente arduo. Spero comunque di averne cavato qualcosa di accettabile, virando dall’immaginario personale a quello mitologico.In breve, tutti i racconti de “Le ragioni nascoste” attingono a qualche esperienza personale, sebbene trasfigurata; tutti tranne “L’uomo che costruiva chimere” e “Memorie di un discepolo”. Nel primo mi sono spinto in un contesto fantatecnologico, all’apparenza distante dalle mie competenze, per parlare di un ingegnere che si arrende, come tutta la società contemporanea, alla prepotente offensiva delle macchine. In pratica l’ho fatto, anche se può sembrare strano, per elaborare la mia confusa reazione a un celebre trattato di Deleuze e Guattari: “L’Anti-Edipo – Capitalismo e schizofrenia”. Nel secondo caso, è stato nuovamente un libro, l’”Atlante delle emozioni umane”, di Tiffany Watt Smith, a stimolarmi a ricostruire i tormenti di un cenobita in preda all’acedia (l’antica “accidia”) e a comparare la sua spiritualità estrema e ascetica a quella anonima e secolare di un discepolo.

UD: Per quanto mi concerne, ogni racconto è autobiografico. Non solo quelli cronachistici o le interviste a vari personaggi, ma persino un capriccio politico come “AILATI AVOUN ALLED ABLA’L”.
Io proprio non distinguo la differenza tra un fatto “vero” e uno di finzione, se non nello stile che inizialmente li contraddistingue: infatti il primo si affaccia all’ascolto con una struttura fallace, incoerente e caotica; mentre il secondo, per quanto tenti di simulare l’assurdità del reale, possiede sempre una certa coerenza, figlia di una intelaiatura intenzionale. Accade poi che, a furia di riproporre l’episodio “reale” per divulgarlo, il “fatto” finisca con l’uniformarsi a qualsiasi altro prodotto immaginario, dato che, per essere condiviso, deve piegarsi alle ferree leggi della narrazione. Altrimenti si disperderebbe nell’oblio, oppure traumatizzerebbe chi lo ascolta, distruggendone l’integrità mentale.
A maggior scorno dei puristi della “realtà” c’è da aggiungere che la nostra vita è costellata di eventi implausibili e bizzarri pronti a infilarsi spontaneamente in edifici mitici. E i miti, questi racconti fondamentali dell’umanità, nascono indubbiamente da esperienze spontanee e naturali che la cultura sintetizza, raffina e tramanda, e con i quali innerva il mondo “reale”, rendendolo un organismo vivo e pulsante, in costante trasformazione. Quindi, cosa c’è da inventare se tutto quello che percepiamo è già un’invenzione? Basta scriverne con un po’ di gusto e di attenzione et voilà, ecco scaturire la magia.

Qual è un consiglio, una “guida alla lettura” che suggerite a tutti quelli che si apprestano a leggere Le ragioni nascoste?

FF: Un libro è semplice potenzialità: necessita del lettore per prendere vita, della sua immaginazione. A chi legge mi sento di suggerire, dunque, soltanto di abbandonarsi al gusto creativo della fantasia e di contribuire, così, a infondere vita ai racconti. Mi piacerebbe – ma si tratta di un semplice auspicio – che il libro, tramite i lettori, continuasse a viaggiare nel mondo. Magari insinuandosi in un pensiero, in una suggestione o in una battuta che scivolano in una conversazione svagata e occasionale. Perché scrivere, in fin dei conti, è un atto d’amore, e l’amore accetta di subire ogni traversia, ma detesta barriere e confini.

UD: Condivido. Contravvenendo alle sue apparenti pretese intellettuali, il libro confida soprattutto nell’istinto del lettore: se si verificherà la magica alchimia tra chi scrive e chi legge lo stabilirà il Caso, e non la nostra volontà di autori. Il Caso, infatti, non si limita a scompigliare l’ordine del mondo ma ne governa profondamente gli ingranaggi, congiungendo tra loro le anime affini.

Un ringraziamento sentito a Francesco Frigione e Ugo Derantolis per la dedizione regalataci.

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