Ivy Compton-Burnett: Il capofamiglia | Recensione

Ivy Compton-Burnett: Il capofamiglia | Recensione

Il capofamiglia di Ivy Compton-Burnett esce per la prima volta in Italia per l’editore Fazi. Dopo il successo di Più donne che uomini, primo romanzo dell’autrice inglese pubblicato dal medesimo editore, il secondo libro della Burnett fa il suo ingresso in Italia rimettendo in scena tematiche pungenti, i cui strascichi permangono ancora nella nostra società: il patriarcato, i ruoli di genere, nonché l’ipocrisia di una società che, attraverso la sagace penna della scrittrice inglese, viene messa a nudo e scarnificata.

Ivy Compton-Burnett è un’autrice molto apprezzata dai suoi contemporanei: è la stessa Virginia Woolf a citarla nei suoi diari per la sua originalità, ed è spesso paragonata a Jane Austen.

Il capofamiglia viene definito dall’autrice stessa il suo romanzo preferito; sesta di dodici figli, nei suoi romanzi le dinamiche familiari la fanno da padrone sullo sfondo di una società difficile, cristallizzata com’è nei suoi stereotipi e dove le donne faticano ancora a svincolarsi dal ruolo imposto loro dagli uomini che ne governano la vita: il padre prima, il marito poi.

I protagonisti de Il capofamiglia, romanzo di Ivy Compton-Burnett

I personaggi che figurano all’interno del romanzo di Ivy Compton-Burnett seguono uno schema speculare: Duncan, l’austero capofamiglia, freddo e distaccato, ma anche pungente e lunatico, lo troviamo seduto al posto d’onore di una tavola che diverrà ben presto un silente e austero campo di battaglia; al suo fianco la moglie-fantasma Ellen, figura che si dimostra sin dalle prime battute succube e dimessa, rassegnata al ruolo che le è toccato recitare. Il romanzo si apre con un’attesa snervante delle figlie dei coniugi Edgeworth al tavolo della colazione nel giorno di Natale: Sibyl, affettuosa e remissiva, e Nance scontrosa e irriverente. Al quartetto si aggiunge ben presto Grant il nipote di Duncan nonché erede della casa abitata dalla famigliola, figlio maschio del fratello di Duncan, il quale sin da subito imporrà la sua autorità sul nipote attraverso gesti simbolici e talvolta plateali.

I pochi accenni all’aspetto fisico dei personaggi sono lo specchio dell’interiorità di ognuno; non a caso Duncan ha il volto duro, mentre la moglie Ellen è bassina e minuta. La stessa ipocrisia della società è messa in rilievo sin dalle prime battute; non solo il giorno di Natale non è vissuto con nessuno spirito particolare dalla famiglia, bensì la stessa messa è recitata attraverso un sermone privo di emozioni. Le famiglie del quartiere riunite nel giorno Santo non perdono però l’occasione per celebrare le parole del prete. La casa dei protagonisti e la chiesa sono i poli attorno ai quali gravitano le azioni dell’intero romanzo. Personaggio emblematico di questa società di involucri vuoti è indubbiamente Beatrice, nomen omen di colei che porta beatitudine, la quale andrà in visita presso tutte le famiglie del quartiere a recare il “semplice messaggio del Natale”.

«Non mi sembra il caso di andare in giro con il cuore in mano!»

La frase è pronunciata dal capofamiglia sempre ligio nei confronti delle norme alle quali attenersi nella società; un mondo in cui si sputano sentenze e veleno vestite di pizzi e merletti, dove le emozioni sono sostituite dal giusto contegno, o al massimo vanno gestite dalle donne, le quali non devono occuparsi di impegni più dignitosi. Tutto ciò che conta è l’opinione comune.

Improvvisamente Ellen si scopre gravemente malata, ma quando le viene dato abbastanza credito, sarà ormai troppo tardi. Da questo momento in poi una serie si stravolgimenti prendono il sopravvento, sconvolgendo la calma apparente che governa la famiglia Edgeworth. Tutto ciò che era sepolto emerge pian piano con lo srotolarsi della narrazione, capovolgendo le relazioni e rimescolando di volta in volta le gerarchie inizialmente instauratesi; non appena la situazione sempre essersi definitivamente stabilita, è proprio quello il momento in cui viene ribaltata.

L’autrice mette continuamente in rilievo i contrasti vissuti dai protagonisti attraverso i loro stessi pensieri e discorsi. Nessun rapporto procede linearmente ma è sempre messo in discussione. E ogni nuovo matrimonio è seguito inevitabilmente da una disgrazia che sconvolgerà gli equilibri appena stabilitisi. Non mancano i continui dibattiti dei compaesani e ogni scelta sembra dover passare al vaglio dell’intera società, e alle questioni futili discusse alla stregua di patti internazionali si sommano le maldicenze che spesso si rivelano veritiere. Nessuno dei protagonisti sfugge a scandali e ribaltamenti; ognuno è il contrario di ciò che appare. La nascita di un nuovo erede si rivela ben presto l’ennesimo scacco al re. Il ruolo del capofamiglia che sembra essere colui che manovra l’intera vicenda risulta puntualmente preso di mira della sottile ironia dell’autrice britannica.

Il lato oscuro dei protagonisti emerge fino al gesto efferato compiuto dall’insospettabile e l’ultima parte del romanzo sembra avvicinarsi a un avvincente giallo con tanto di soluzione. Ma la polvere viene continuamente nascosta sotto il tappeto dell’ipocrisia e in una società dove il perdono non ha nulla a che vedere con la carità cristiana non esiste lieto fine, se non quello che ci si aspetterebbe dalle convenzioni, dal senso comune. E così la gabbia dorata della buona società inglese di fine Ottocento resta in piedi, nonostante gli scossoni e gli scandali, nonostante gli omicidi e i tradimenti.

Il ritmo della narrazione

Sin da subito appare evidente che la vicenda viene narrata dalla voce diretta dei protagonisti, interrotti da brevissimi interventi del narratore, e ciò è caratteristica peculiare dell’autrice che la distingue dagli autori suoi contemporanei. I dialoghi la fanno da padrone; dalle stoccate velenose dei protagonisti alle isteriche asserzioni delle donne del vicinato fino agli sparuti interventi dei mariti o dei figli maschi. Vengono messi in scena i pensieri più o meno veritieri, i commenti, i giudizi e le critiche della società, come a voler mettere in rilievo l’ipocrisia della borghesia inglese ottocentesca, direttamente dalla viva voce dei suoi protagonisti.

Un romanzo lucido e spietato che mette in scena, scarnificandola, l’ossatura della società inglese del tempo, al cui interno le donne sono canarini imprigionati nel ruolo di mogli infelici o di altrettanto infelici zitelle.

Fonte immagine: Fazi Editore

A proposito di Carmen Alfano

Studio Filologia Moderna all'università degli studi di Napoli "Federico II". Scrivo per immergermi totalmente nella realtà, e leggo per vederci chiaro.

Vedi tutti gli articoli di Carmen Alfano

Commenta