La mite di Dostoevskij | Recensione

La mite di Dostoevskij | Recensione

La mite è un racconto di Fëdor Dostoevskij scritto nel 1876 per il suo Diario di uno scrittore. Il tempo di elaborazione dell’opera è assai lungo, e già nel 1869 Dostoevskij abbozza un racconto su un tema simile, ma il progetto resta incompiuto per sette anni fino a quando, nell’autunno del 1876, a Pietroburgo si verificano parecchi casi di suicidio e uno in particolare lo colpisce profondamente: il suicidio di una ragazza definito dai titoli dei giornali un «suicidio mite».

La mite di Dostoevskij: trama

Sconvolto davanti al cadavere ancora caldo della moglie, un uomo si interroga sul suo suicidio. «Chi ero io e chi era lei». Inizia così il primo paragrafo dell’opera. Con questo titoletto lo scrittore russo trae in inganno i lettori: andando avanti ci si rende conto della totale assenza della storia della protagonista, accennata con poche note biografiche. La mite non ha un nome, viene considerata un oggetto di quello che si rivela essere il vero protagonista del racconto: un usuraio, ex militare cacciato via per mancanza di coraggio, il cui unico desiderio è quello di accumulare velocemente denaro per poter lasciare il lavoro e vivere di rendita in un’altra città. L’uomo si propone di sposare questa giovane di appena sedici anni, soprattutto per il carattere mansueto che la ragazza mostra nei loro primi incontri.

La mite di Dostoevskij presenta una trama che si configura come un monologo interiore del protagonista, una sorta di confessione delle colpe dell’uomo che, con la sua severità, la sua freddezza, il suo egoismo e i suoi continui silenzi ha portato alla rovina una fragile, generosa e mite creatura femminile. Davanti al corpo della moglie suicida, si domanda come sia stata possibile una tale tragedia e cosa possa aver portato la donna a compiere un gesto tanto estremo: si accusa, si processa, si condanna e si assolve. Prova a fare chiarezza tra i suoi pensieri confusi senza riuscirci e non si dà pace per l’accaduto.

Nelle circa settanta pagine di monologo, viene svelato da Dostoevskij il carattere della moglie suicida, la mite inserita nel titolo che mite non è: il protagonista narrante ha sempre pensato, erroneamente, che la moglie fosse una donna remissiva, e solo dopo la sua morte scopre che invece è sempre stata decisa e tenace, mossa da una temeraria ostinazione che l’ha portata a prendere decisioni importanti in silenzio, compresa l’ultima, quella definitiva, del suicidio. All’apparenza subordinata all’autorità dell’ottuso marito, la mite si rivela essere indipendente fino alla fine, spiazzando l’uomo che non riesce a capire le motivazioni del gesto. La meschinità dell’usuraio, l’avidità senza scrupoli e l’aridità affettiva creano un baratro fra i due, al centro del quale la giovane viene sempre considerata una proprietà.

Sulla scia del sottosuolo

Il racconto è quasi un flusso di coscienza, una sequenza di pensieri buttati giù di getto che si ricollegano alla tradizione inaugurata dalle Memorie dal sottosuolo dello stesso autore. I ragionamenti vengono spesso interrotti, si alternano al racconto di avvenimenti passati, cruciali per provare a comprendere le ragioni del gesto estremo della donna. Dostoevskij, ne La mite, dipinge, alla sua maniera caratteristica, la psicologia del protagonista riuscendo a far immedesimare perfettamente il lettore nella parte del pubblico, o della giuria, che lo sta ad ascoltare e lo fa schierare, inevitabilmente, dove la psiche gli suggerisce sull’onda delle emozioni di cui sono impregnate le pagine di questo «lacerante monologo interiore di un uomo permaloso e superbo, quasi variante di quello del sottosuolo». Attraverso un’analisi acutissima e spietata, l’opera apre squarci vertiginosi sui meandri della psiche umana, senza lasciare scampo.

Fonte immagine per l’articolo: Pixabay

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