Un occhio in primo piano bagnato da una lacrima di sangue. È questa l’immagine che campeggia sulla copertina di Storie di sangue e di carne ben cotta, opera prima della scrittrice Rossana De Filippo, che, presentata di recente anche alla Fiera Internazionale del libro di Francoforte, segna un esordio davvero promettente.
«Ho scritto per ricordare e ho ricordato perché volevo scrivere».
Un viaggio nella memoria, in quel passato con cui, prima o poi, bisogna fare i conti. Un viaggio che lei stessa definisce necessario, da cui emerge prepotente un uso sapiente e mai banale della scrittura.
In occasione del Campania Libri Festival, tenutosi nella meravigliosa cornice del Palazzo Reale di Napoli, Eroica Fenice ha intervistato Rossana De Filippo.
Partiamo dal titolo alquanto insolito…
Sono stata una bambina anemica e inappetente, con in più la sfortuna di pranzare tutti i giorni con i miei coetanei del Biafra che i TG degli anni ’80 ti portavano dritto nelle case. I miei genitori non smettevano di ripetermi quanto fossi fortunata a poter bere il sangue della carne del miglior macellaio del paese per contrastare la mia anemia rispetto a quei bambini che la carne se la sognavano già intorno alle loro ossa, figurarsi nel piatto! I sensi di colpa li mandavo giù con l’acqua Fiuggi mentre la carne cotta al sangue, se non ero vista, finiva nel tovagliolo. Ho bevuto per anni sangue di carne bovina, equina, di fegato ma continuavo a esser bianca e arrendevole come la ricotta. La carne ben cotta del titolo è quella che bramavo inutilmente da bambina per risparmiarmi tutto quel sangue, le storie che racconto sono, invece, quelle che, crescendo, il rosso ha in qualche modo sempre tinto, indicandomi talvolta perfino la strada di casa, come le briciole di pane per Pollicino.
Quanto è durata la gestazione del libro e quanto questo è cambiato dalla prima stesura?
Poco, cinque mesi durante i quali ho recuperato e dato un ordine a frammenti già scritti ma sparsi qua e là; 48 anni se si considera il tempo in cui le storie che narro le ho vissute e il sangue che le irrora l’ho bevuto e buttato. Il libro sarebbe cambiato ancora, sono tuttora convinta di averne pubblicata la versione peggiore; per fortuna ho avuto dalla mia chi mi ha spinta a metterci un punto.
Rossana, nel tuo libro racconti tanto di te, della tua vita. Come ci si sente a mettersi così a nudo su una pagina bianca?
Meglio che davanti ad uno specchio! Scherzi a parte, ci si sente finalmente liberi e liberati. È materia che a tal punto non mi appartiene più da avermi consentito di intervenire freddamente nella fase del labor limae. Ho fatto pace e ho fatto i conti con un sacco di persone. Peccato siano tutte morte.
Che tipo di reazioni sta riscuotendo Storie di sangue e di carne ben cotta?
Piace molto. Piace soprattutto la teatralità della mia penna, del resto con questo cognome… “Me lo fai vedere quello che racconti” credo sia uno dei complimenti ricevuti più belli. Ah, e poi mi dicono che il mio libro è “attivante” e “rispecchiante”: tanti lettori si sono rivisti in alcuni spaccati di vicende familiari, si sono ritrovati negli odori e nei sapori di un tempo perduto, hanno sorriso con nostalgia sulla Coppa Rica all’amarena, la gassosa Arnone, il ciclomotore Califfone…
Quali sono le difficoltà che uno scrittore deve affrontare per arrivare alla pubblicazione di un’opera prima?
Questa domanda mi ha riportato alla memoria un episodio banale di qualche anno fa. Una volta, in una delle tante case che ho abitato, l’amministratore del condominio scrisse: BISOGNA DARE 4€ CIASCUNO PER LA CANNA. DEL GAS NON VI DIMENTICATE. Beh, quali difficoltà deve affrontare uno scrittore per pubblicare? Io direi le stesse che incontra quotidianamente chiunque viva: augurarsi di imbattersi in qualcuno che sia onesto, che legga e che usi bene punteggiatura e congiuntivo.
Pavese ne La luna e i falò scrive «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Che rapporto hai con i luoghi in cui sei cresciuta e, soprattutto, in che modo, in bene o in male, credi ti abbiano condizionata?
Ho commesso, spesso, sempre lo stesso errore: ritornare nei luoghi che mi hanno vista bambina, come quel pomeriggio di settembre 2020 nella casa dei nonni materni (ne scrivo anche in un capitolo del libro). È stato come indossare a 50 anni i jeans che indossavi a 20… Qualche volta ho voluto anche, ostinatamente, ritornare nei luoghi di vacanza dove ero stata particolarmente bene. Sbagliato anche questo. Forse ritorno così spesso per avere ogni volta il permesso di andare via. Chi dovrebbe, poi, darmelo questo permesso ancora non l’ho compreso. Magari solo un alibi prestato alla coscienza dalla mia insofferenza, dalla mia inquietudine, dalla mia incapacità a restare.
Quando hai cominciato a scrivere?
A 7 anni, poesie, poesie che commuovevano il marito della mia maestra delle elementari. Ti dico che piangeva di brutto. Era figlio unico come me e rivedeva nella mia solitudine quella che era stata la sua. Ma, forse, piangeva semplicemente perché le mie poesie non erano tanto belle. A 10 anni, poi, il mio papà mi fece conoscere la Settimana Enigmistica e mi appassionai di ludolinguistica. Non ho più smesso.
Qual è il tuo rapporto con la scrittura? Che significa scrivere oggi?
Una a cui sfugge davvero molto poco.