Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio: Non è questo che sognavo da bambina

Non è questo che sognavo da bambina Sara Canfailla

L’Italia è una Repubblica fondata sul precariato. Recensione del romanzo d’esordio di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio

“Che cosa vuoi fare da grande?” è una delle domande che vengono poste più spesso ai bambini. Arriva, inesorabilmente, il giorno in cui grandi lo si è davvero, e bisogna fare i conti con le proprie aspettative, senza dimenticare però di tenere i piedi ben saldi per terra. In una società frenetica e consumista, dove anche il lavoro umano è una merce e si passa più tempo tra le quattro mura del proprio ufficio che nella propria casa, una società che ha fatto della realizzazione professionale il fulcro dell’esistenza, è quasi un delitto non avere aspirazioni, un sogno nel cassetto da tirar fuori e realizzare: peccato che la stessa società che sbandiera pari opportunità e il facile accesso ad una vita da sogno per chiunque lo desideri, di fatto spinga sempre più persone a mettere da parte le proprie ambizioni personali per far spazio all’esigenza, più pratica e meno velleitaria, di pagar l’affitto e le bollette, soprattutto se le ambizioni personali hanno a che vedere con l’espressione artistica e non trovano spazio in un mondo asettico e perennemente in corsa, come nel caso di Ida, neolaureata, coinquilina e precaria, come lei stessa si descrive, la protagonista del romanzo d’esordio di Sara Canfailla e Jolanda di Virgilio, Non è questo che sognavo da bambina, edito Garzanti

Ida è un’aspirante sceneggiatrice abruzzese di 25 anni; avrebbe voluto vivere ovunque tranne che a Milano, ma vive a Milano, avrebbe fatto qualsiasi altro lavoro tranne che un lavoro d’ufficio, ma si trova a svolgere un lavoro d’ufficio dai turni massacranti in un’agenzia di comunicazione che non riesce a spiegare senza ricorrere ad infiniti anglicismi dei quali non comprende il senso, ma comprende bene l’inutilità, parole vuote di senso volte ad aumentare il valore percepito di quel che non è altro che la programmazione di un post su Instagram, ripetute con enfasi da colleghi che parlano la stessa incomprensibile lingua ibrida di inglese ed italiano e si ritengono parte di un’unica famiglia, in un ufficio che assomiglia sempre più ad un confortevole appartamento, dove restare per ore può apparire più piacevole che rifugiarsi nel tugurio in condivisione che ci si può permettere con lo stipendio di stagista.

L’intelligenza e la creatività dell’eroina del romanzo di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio si annullano per l’esigenza di concretezza, di abbracciare una vita adulta nella quale sia possibile vivere, se non con agio, almeno abbastanza bene da potersi permettere una carta igienica a quattro veli, simbolo del benessere economico nel romanzo, si spengono dietro un monitor che ne fa l’ultimo anello di una catena tanto futile quanto opprimente. Milano è l’altra grande protagonista del romanzo: la città più europea d’Italia, quella dove tutti sembrano più indaffarati ed il tempo corre più velocemente ed è scandito da lunghi turni lavorativi, mai lunghi abbastanza, ed aperitivi nei quali si recupera una parvenza di socialità, aperitivi durante i quali la protagonista affoga spesso e volentieri nell’alcol la disillusione derivante da una vita troppo diversa da quella che lei sognava da bambina e che immaginava durante gli studi universitari, ma diversa anche da un desiderio, più adulto e maturo, di serenità economica e stabilità.

Ida è la voce dei millennials, la generazione dei ventenni e trentenni che oggi risente della crisi economica nel difficile e tortuoso accesso ad un mondo del lavoro sempre più precario, dell’illusoria promessa di poter conquistare il mondo dopo anni di studi e sacrifici e del conseguente, forzato ridimensionamento delle proprie aspirazioni: mediamente più istruiti dei propri genitori e nonni, i millennials devono lottare per conquistare lavori che fino a vent’anni fa si potevano ottenere senza titoli di studio universitari, devono accontentarsi di ridicoli contratti di stage che ne sfruttano le energie e ne frustrano le ambizioni ventilando la possibilità di un tanto agognato contratto a tempo determinato e subiscono quotidianamente la beffa di sentirsi dire, dai media e dalle generazioni più anziane, di non aver voglia di lavorare. La generazione del precariato, che ha rinunciato al “posto fisso”, caposaldo degli anni del boom economico, la generazione del consumismo relazionale ed affettivo, responsabile, assieme al precariato, della conseguente denatalità, la generazione dell’incertezza su tutti i fronti: impossibile programmare il proprio futuro anche soltanto a breve termine, se questo dipende dal rinnovo di un contratto lavorativo la cui paga a stento copre le spese di un posto letto in un appartamento in condivisione nella periferia milanese. 

Non è questo che volevo da bambina, scritto a quattro mani da Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, è un romanzo ben scritto, acuto, sagace e brillante, che si avvale di una prosa scorrevole e di un registro linguistico che spesso si avvicina al parlato, con effetti di grande realismo: Ida è un personaggio immaginario, ma la sua è la storia di tanti, troppi millennials. Una storia che parla di speranze frustrate, ma anche di riscatto e crescita personale, che racconta quanto la realizzazione lavorativa sia sopravvalutata e di quanto questa e la realizzazione personale non sempre coincidano. Un romanzo che racconta il difficile percorso che porta a diventare grandi, a soddisfare i bambini che si è stati, o almeno non deluderli troppo.

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A proposito di Giorgia D'Alessandro

Laureata in Filologia Moderna alla Federico II, docente di Lettere e vera e propria lettrice compulsiva, coltivo da sempre una passione smodata per la parola scritta.

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