Un tè a Chaverton House, recensione del romanzo

Un tè a Chaverton

È uscito per Garzanti Un tè a Chaverton House, il nuovo romanzo “highly British” di Alessia Gazzola: una storia romantica sospesa nel tempo – dal Novecento ad oggi – e nello spazio, tra la Sicilia del dopoguerra e l’Inghilterra dei giorni nostri, Brexit inclusa.

«Un angolino dello splendore di un villaggio della campagna inglese: è tutto ciò che si possa desiderare in questa nostra vita»: è con una citazione scelta ad hoc dal romanzo di Gill Hornby “Miss Austen: A Novel of the Austen Sisters” (in italiano edito da Neri Pozza, 2020) che si apre la nuova deliziosa avventura di Alessia Gazzola, “Un tè a Chaverton House”, pubblicato da Garzanti.
La scrittrice messinese, autrice de L’allieva – alle cui vicende di Alice Allevi ha dato volto televisivo Alessandra Mastronardi -, torna alla ribalta con una vicenda in perfetto stile british con magiche e sognanti atmosfere à-la-Downton Abbey.

Un tè a Chaverton House, trama

Angelica Bentivegna è una ventisettenne milanese con una passione a tutto tondo per l’inglese. Il suo essere buffa, carina ed intrinsecamente adorabile ne fa una perfetta eroina gazzoliana. Lasciata dal fidanzato Davide, licenziata dalla panetteria in cui lavora e dove sforna golosi cornetti, si appassiona ad una storia di famiglia raccontatale da un’iconica prozia Edvige, docente di filosofia in pensione che vive da sola col suo gatto Parmenide e si interroga sulla misteriosa scomparsa del padre. Un romanzo ideale da leggere in un pomeriggio in lockdown con un plaid sulle gambe ed una tazza fumante di british tea.

Recensione

Si chiamava Angelo il padre di Edvige, il bisnonno di Angelica alla ricerca del quale comincia un’avventura effervescente che, dalle grigie nebbie di Milano, trasporta direttamente nelle campagne inglesi del Dorset più autentico. Angelo fu catturato dagli inglesi e dichiarato morto in guerra. Lasciò moglie e figlie tra Palermo e Mondello, che lasciarono poi in favore di Milano. Che fine fece Angelo? Quale verità scoprì sua moglie, tanto ingombrante da non volerla condividere con le sue stesse figlie? Angelica prende a cuore la questione che, pur a distanza di decenni, ancora continua ad inquietare la prozia filosofa.

Ed è così che l’impianto narrativo si snoda in un doppio binario: il passato ormai stanco e lontano in Italia, più che remoto nel dopoguerra siciliano, altrettanto cristallizzato a Milano, ed un presente che da quella staticità vuole affrancarsi, e lo fa cercando un nuovo dinamismo all’estero, in Inghilterra, seguendo la lingua tanto amata e le tracce dell’avo perduto in terra straniera. La terra stessa assume un significato filosofico, essendo – da un lato – l’occupazione del bisnonno Angelo, contadino a Chaverton House a fedele servizio del Lord della tenuta, e dall’altro l’humus stesso dell’esistenza di Angelica, che in quell’antenato sente evocare il suo stesso nome e fremere una voglia irredimibile di dare una scossa, una direzione “altra” alla sua grama vita.

«Tutti hanno tra le proprie conoscenze qualcuno che è uscito dagli schemi, che hai preso per pazzo perché con niente in mano è partito per la Nuova Zelanda e ci è rimasto e ora è lì felice alla faccia tua. Ecco, io sono quella conoscente lì, quella che si adatta a tutto, quella che molla la scuola, poi lavora in un panificio, poi però a scuola ci ritorna, o forse anche no. Non mi chiedo cosa ne sarà di me, non mi importa costruirmi mattone su mattone una stanza tutta per me che alla fine si rivelerà una cella. Io sono una mina vagante, rifiuto l’ordine come stile di vita e le imprimo una direzione seguendo la scia di un dolce profumo».

È così che Angelica si ritrova in una location mozzafiato, che per magnificenza ricorda la serie tv Downton Abbey grazie alla quale trova un nuovo lavoro e, inevitabilmente, incontra un mondo ignoto, costituito dagli sparuti personaggi che hanno conosciuto il bisnonno e ancora lo ricordano, e di sfaccettati amici e nemici dinanzi ai quali si presenterà nella veste inedita di “your humble servant, Miss Angelica Bentivegna”.

Tra un cornetto e uno scone, un caffè ed innumerevoli tè, scorre spassosamente l’avventura di Angelica che, romantica e delusa com’è, dall’amore, non può però non incontrarne un problematico esemplare. Un uomo zoppo chiuso anche lui in un passato da cui ha paura di scappare, e che per tanti versi ricorda un eroe byroniano lasciatosi, però, pian piano andare.

« “Sai che lo zoppo in letteratura è l’antieroe necessario?”  gli chiedo spolverando una teoria che ho studiato ai tempi dell’esame su Riccardo III. “Perché lo zoppo vacilla, e metaforicamente rappresenta il dubbio, la posizione critica, quella che permette di evolversi perché invece chi è fermo nelle proprie certezze non dubita e non avanza mai. Ma lo zoppo è anche un ribelle e nel bene e nel male si ha bisogno dei ribelli, perché proteggono il limite” ».

Che vi sia o meno un omaggio nascosto alla musa dell’Orlando di Ariosto, anche Angelica si trova in balia di un amore folle, che inizialmente non sa se sia o meno corrisposto. Va perciò letta tutta d’un fiato l’avventura di Angelica narrata in “Un tè a Chaverton House”: una vicenda che invita a prendere a sorsi la stessa vita, senza aver smania di cambiarla da un giorno all’altro solo per dimenticare quel che di brutto è successo e continua a far stare male. Per gli appassionati di cultura e letteratura inglese che volessero cimentarsi con un qualcosa di non troppo impegnativo, questo romanzo di Alessia Gazzola è un piccolo must.

L’autrice stessa rivela com’è nato, perché e quando: candidamente, “in trenta giorni durante il lockdown” della primavera 2020, per creare una storia semplice che unisse e spezzasse l’isolamento al quale ognuno di noi è (stato) costretto, portando conforto e senso di vicinanza. Una storia semplice che ricordasse l’importanza del tempo e di farne tesoro, riconoscendone l’irripetibile preziosità e la chiave esistenziale della propria vita.

«Mi sono ricordata di quando c’è stato un allestimento alla Scala dello Schiaccianoci, mi pare che fosse. Insomma, era uno spettacolo di tua nonna. Aveva ventidue anni. Era uno splendore. Certo, non è mai diventata étoile, però insomma, il mondo ha bisogno anche di ballerine di fila e forse questo vale per tutto».
«Dillo a me zia, metaforicamente parlando io sono nata per essere una ballerina di fila».
«Tesoro mio, tu però sei l’étoile della tua vita, questo non te lo dimenticare».

Fonte immagine: Garzanti editore

A proposito di Giulia Longo

Napolide di Napoli, Laurea in Filosofia "Federico II", PhD al "Søren Kierkegaard Research Centre" di Copenaghen. Traduttrice ed interprete danese/italiano. Amo scrivere e pensare (soprattutto in riva al mare); le mie passioni sono il cinema, l'arte e la filosofia. Abito tra Napoli e Copenaghen. Spazio dalla mafia alla poesia.

Vedi tutti gli articoli di Giulia Longo

Commenta