Terra viva di Vandana Shiva: la recensione
Terra viva di Vandana Shiva (edito da Aboca) è un testo che mira autobiograficamente, da un lato, a rappresentare il percorso umano e ideologico che ha condotto l’autrice e scienziata indiana ad assumere posizioni determinatissime contro la scienza riduzionista, il capitalismo predatorio, l’imprenditoria delle culture intensive, le deforestazioni e le desertificazioni, lo sviluppo degli OMG e, infine, il monopolio del “commercio” dei semi da parte delle multinazionali. Dall’altro, il memoir tende invece a rappresentare fattivamente le caratteristiche del movimento “vandananiano” e a esplicarle in uno stile intimo e coinvolgente attraverso nove capitoli divisi a loro volta in paragrafi che vogliono argomentare, talora con analisi approfondite, talora con reconditi aneddoti e ulteriori specificazioni, i vari sensi e interpretazioni dell’ecologia oggi.
L’autrice
Vandana Shiva si è laureata in fisica quantistica in Canada ma ha progressivamente “abbandonato” questo indirizzo di azione a favore di un contatto più diretto con la natura in cui la sua triplice identità di donna indiana, scienziata e attivista ha potuto assumere un ruolo di mediazione tra le esigenze ecologiche del pianeta e il benessere delle comunità che le abitano.
I temi
Terra viva è di fatto la rassegna che progressivamente introduce il lettore nello spazio delle idee e della conversione dell’autrice da donna e scienziata ad attivista. Citando testualmente Vandana Shiva, nata e cresciuta nella valle del Doon: «sento un profondo legame ambientale con le foreste di rododendri, querce e cedri deodara e con i ruscelli di montagna». Ciò a testimonianza del fatto, più volte ripetuto e sottolineato nel corso del libro, che alla formazione dell’individuo cooperano sicuramente le scelte e la qualità dell’istruzione istituzionale ma che un ruolo di primaria importanza sia da attribuire, per assecondare una metafora con il contesto della foresta himalayana, alla qualità del seme — che è la naturale attitudine dell’individuo alla conoscenza — e all’humus in cui si impianta, considerando quest’ultimo come la risultante delle attività e delle interazioni garantite dai membri del contesto sociale di riferimento.
L’eco-femminismo
All’interno del testo è possibile rinvenire, prima di tutto, l’opposizione tra due correnti integrali di pensiero e azione: da un lato la logica imprenditoriale è un movimento economico che potrebbe dirsi “fallico” nel senso in cui l’autrice lo descrive come essenzialmente maschilista, predatorio e patriarcale in contrasto, invece, all’ecologia materna e matriarcale, di cui le donne — e in particolare le donne contadine — sono fautrici, autrici, collaboratrici e custodi della salute dei terreni e dei semi. La percezione che proviene dalla lettura di questo testo è che di fatto il mondo sia una enorme bolla vivente di cui l’ecologia è la patina sottile. Le donne provvedono continuamente a cucirne gli sfilacciamenti, a preservarne l’integrità, a proteggerne la bellezza nascondendo la grande importanza del loro ruolo dietro la convinzione analogica imperante per cui “le donne sono corpi passivi”. Ma non è solo un atteggiamento contrario alla logica patriarcale questo sentimento di Vandana Shiva e delle sue compagne ecologiste, è anche e soprattutto un desiderio di rappresentare l’assoluta importanza — nelle determinazioni che sovrintendono le logiche della protezione e della salvaguardia ambientale — della donna contadina, della donna no business woman-no professional ma “semplicemente” agronoma e cultrice, custode dei semi. E su quelle spalle, così ricurve, e su quelle mani, nodose come i rami di benji, si allacciano e si legano gli equilibri del mondo, dell’agricoltura, della continuità vitale delle comunità umane. Vandana Shiva ritrae le donne, nell’ambito del sistema ecologista — ed è per questo che essenzialmente si parla di ecofemminismo — come fate e ninfe dei boschi, come Demetre e Persefoni agresti, capaci con le loro mani magiche, di accompagnare i cicli vitali delle piante, di orchestrarne gli intrecci, di proteggerne lo sviluppo e la crescita. È di fatto proprio lei- la donna, la contadina-la custode dei semi, la tessitrice delle reti di boschi, la protettrice degli alberi di benji dai rami storti e dalle radici dilatate.
La questione del benji è, ad esempio, una pietra miliare del testo. L’imprenditoria della carta è profondamente contraria alla logica della quercia himalayana. Piuttosto che benji, preferisce di gran lunga coltivare eucalipti: piante dal fusto liscio e alto, idoneo al ricavare la carta diversamente dal benji, isterico e nodoso, capace di produrre humus e di trattenere la terra sotto i piedi e non cedere alle inondazioni del bacino del Gange ma così antipatico all’industria della cellulosa. Il testo di Vandana Shiva stupisce perché non è solo una rassegna di tipo ambientalista ed è ecologista, non è solo il racconto dettagliato, e talvolta scientifico, di come avvengano le cose nelle logiche imprenditoriali ma è anche e soprattutto l’appello accorato alle comunità umane ad abbracciare la fede nei semi e nella loro custodia, è l’invito a radunare la ragione a favore di una comprensione che trascenda le logiche imprenditoriali: non esiste un senso nell’arricchirsi che non sia compatibile con il preservare la vita e la vita è profondamente legata al ciclo che permette al cibo di giungere a tavola. Il nutrimento non riesce a distaccarsi dai cicli vitali e vegetali che lo concepiscono e lo mettono al mondo e l’arricchimento non può quindi avvenire in una condizione che sfavorisca le condizioni in cui possa e debba avvenire la corretta creazione del nutrimento.
Molti sono gli argomenti e i punti di interesse all’interno del libro di Vandana Shiva: non solo dunque il complicato e grandissimo contributo della donna e della donna contadina alla causa mondiale dell’ecologia, non solo l’interesse per un sapere tradizionale e scientificamente maturato in seno alla sapienza che si trasmette da madre in figlia e che si eredita, non solo la premura nei confronti della corretta nutrizione ma anche le logiche imprenditoriali che portano talvolta all’annientamento dei principi base della vita e che prevedono il conseguimento della ricchezza come obiettivo primo da considerarsi superiore persino al diritto alla salute e alla vita.
Il lessico, la tecnica
Il lessico adoperato dalla scrittrice Vandana Shiva è perfettamente in linea con l’intenzione divulgativa e pedagogica del testo: di fatto se da un lato Vandana è una fisica laureatasi in Canada, un’attivista capace di confrontarsi su questioni di importanza mondiale con i capi di stato, una scienziata interpellata dai vertici del pianeta per maturare dottrine e strategie utili al conseguimento di un’ortodossia ecologica, dall’altro Vandana ricorda la sua crescita a contatto con le donne semplice della sua comunità e che «le contadine indiane sono state la mia prima università» per cui non dimentica di adottare un linguaggio in linea alla divulgazione semplice e non semplicistica, alle parole chiare dolci e fresche come acque, e non rinnega la presenza di esempi e aneddoti che possano costituire una alta cifra di godibilità del testo stesso.
Complicatissimo è rinvenire, nel testo, la frase più bella, il periodo più indicativo, il motto più suggestivo e di ispirazione perché tutto il libro, tutto il racconto autobiografico, tutta la tesi, più è più volte rimpolpata da concetti nuovi e vecchi, è incentrato sul conseguimento di un obiettivo comune: convincere che adottare un atteggiamento ecologico non è la gentile concessione che l’uomo deve al pianeta né meramente un atto di rispetto dovuto per nostra sensibilità all’ambiente ma una strategia intelligente, e l’unica possibile, per assicurare alle generazioni future l’eredità del complesso organismo in cui viviamo e a noi stessi il suo corretto funzionamento.
Immagine: HuffPost Italia
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