Donato Zoppo, un amante che non smette mai di insegnarci qualcosa

Donato Zoppo, non solo Lucio Battisti: da lui si può sempre imparare qualcosa

Donato Zoppo non è una figura ignota su questi schermi: era già salito alle luci della ribalta di chi scrive con il libro Il nostro caro Lucio, scavo appassionato nell’officina creativa e personale di Lucio Battisti, opera tratteggiata con grande sensibilità, emozione e curiosità filologica. Donato Zoppo è una figura ibrida e imprescindibile, con le sue attività che spaziano dal giornalismo allo storytelling, dalla radio all’ufficio stampa, senza dimenticare la scrittura, filo rosso che unisce il tutto saldamente.
Una vera e propria stella polare della cultura musicale e non solo, che ha sempre qualcosa da irradiare, attorno a sé. 
Potremmo dire qualsiasi cosa di Donato, ma in quest’intervista lui sceglie di definirsi un amante: scopriamo il perché, direttamente dalle sue parole. 

Donato Zoppo, intervista

Iniziamo dalla domanda più semplice (o forse più difficile, dipende dai punti di vista). Chi è Donato Zoppo e come lo spiegheresti a una persona che non lo conosce?
Altro che semplice… è la domanda più complessa, proprio per questo allettante. Sorvolo su faccende legate all’identità e alla personalità, che sono di scarso interesse per chi ci legge – forse anche per me – per dirti che Donato Zoppo è un amante. Amante della musica, della lettura, della scrittura, dell’ascolto, dell’arte e delle arti, della condivisione. Amante delle connessioni, soprattutto quelle impreviste che ti cambiano la vita, oltre che la percezione. Ho sempre ascoltato musica e letto libri, ne ho fatto una professione in un duplice percorso: da una parte la scrittura – libri, riviste, web – e la radio, dall’altra la comunicazione professionale – il mio mestiere di ufficio stampa. Al centro c’è la passione, la voglia di condividerle nel modo più pulito e sano. Amo i Beatles: forse bastava dire subito questo.

Come è nata la tua passione per Battisti? Più che passione, sembra essere una vera e propria “vocazione”, tant’è che sei l’autore che ha avuto il merito di farlo conoscere alla maggior parte del pubblico, dandone un ritratto davvero efficace.
Sono lieto che tu parli di vocazione, dunque di chiamata, di qualcosa che arriva dall’alto, stringe e costringe come un bisogno. Ho scritto tre libri su Lucio Battisti, più qualche saggio sparso qua e là in libri altrui, e se potessi scriverei ancora qualcosa su di lui. Quando arriverà una nuova chiamata risponderò volentieri. Battisti è stata una scoperta progressiva, continua. Lo ascoltavo da ragazzo, en passant, tra mille e mille altri album, poi nell’88 la scoperta dell’Apparenza, il suo secondo Lp con Pasquale Panella. Un impatto di cui assaporo la sensazione ancora oggi, una cosa per iniziati. In quella sensazione disturbante ma magnetica, credo si sia celato per bene anche il bisogno di scriverne, di volerlo raccontare: nel 2010, finalmente, il mio primo libro, l’ultimo è uscito l’anno scorso, nel laboratorio del futuro intravedo qualche vocina. Aggiungo per correttezza e per piacere alcuni autori battistiani: Gianfranco
Salvatore, Michele Neri, Renzo Stefanel, Luciano Ceri. Se i miei libri sono leggibili e spero anche piacevoli, lo devo anche a chi mi ha preceduto negli studi.

Qual è il metodo che segui per scrivere i tuoi libri, oltre ad una rigorosa e precisa documentazione?
Affronto e vivo la scrittura come un’altissima forma di artigianato, nobile e manovalesca allo stesso tempo, cesello e cazzuola. Un’opera scultorea: l’abilità è tutta nel togliere marmo dal marmo. Non ho un metodo predefinito ma c’è un elemento costante, che è proprio la sottrazione. Per arrivarci però c’è il percorso di studio. Letture incrociate, continua e meticolosa ricerca e appunti – amo scrivere su carta e solo dopo arrivare al pc – fino alla stesura, dalla quale poi sottraggo il superfluo. Pensa che i miei primi libri mi procurano ancora qualche imbarazzo: troppe parole. Avevo molte idee e abbondavo nel comunicarle: oggi forse sono anche di più, ma lavoro su concetti chiari, espliciti, che coinvolgano il lettore accompagnandolo nella scoperta. Ecco, amo poter trasmettere a chi mi
legge la sensazione della scoperta. Stando ai responsi, i miei titoli su Genesis, Area, Battisti e Beatles sono quelli che hanno meglio veicolato questa bellezza.

Cosa ne pensi dello stato attuale della musica? Ha senso ancora parlare di rock e di generi in particolare? Quali sono gli artisti che apprezzi maggiormente?
Tre domande in un colpo solo, cara Acito, vuoi complicare le cose allora. Vediamo di semplificare, sciogliendo. Ho la fortuna di raccontare storie di artisti e gruppi del passato, quando lo stato della musica era di una salute di ferro. Musica come elemento identificativo, colonna sonora di storie e di generazioni, tratto distintivo. Musica come qualcosa di importante, di vitale. Oggi non è così. Sono figlio dell’oggi, dunque non ho un punto di vista nostalgico, non rimpiango luoghi e tempi in cui non ero, ma mi spiace che nell’oceano dilagante di stimoli la musica – e il rock in particolare – non sia degnamente considerata. Probabilmente era inevitabile. Dagli anni ’90, dalla babele di stili che caratterizzò quel decennio, le disamine sui generi hanno perso un po’ di smalto. Parlare di generi ha senso se prima si fa una riflessione adeguata sulla connotazione di genere, magari mettendo da parte i tag di Spotify per il consumo. Fermo restando che il rock è oggi un fatto da museo, come temo anche altre musiche parallele, affini o sorelle, allora ha senso parlarne come oggetto di studio. Cercare la scintilla ancestrale ribelle nel rock non ha più senso, credo si sia spenta con la morte di Kurt Cobain. Apprezzo troppi artisti e lo spazio è poco come l’attenzione di chi ci legge, che ha avuto fin troppa pazienza. Non eludo la domanda, la affronto da un altro punto di vista: per apprezzare un artista o un gruppo, devono esserci condizioni come l’onestà intellettuale, l’autenticità, l’emotività della comunicazione, il pathos e la ricerca. Allora apprezzo Sir Paul come Neneh Cherry, Miles Davis come Suad dalla Finlandia o i Songhoy Blues dal Mali.

Parlaci dei tuoi progetti futuri.
Sto lavorando a due libri ai quali tengo molto. Il primo riguarda l’immaginario visivo e grafico di una straordinaria rock band. Non posso aggiungere altro ma come indizio per enigmisti pensate che uscirà con l’editore delle copertine bianche, lo stesso colore delle strisce pedonali. Un altro al quale sto lavorando, pur essendo in fase di archiviazione di informazioni e stimoli, tratterà un’ampia porzione di storia del rock, dagli anni ’60 ad oggi. Vuoi un aiutino? Guardiamo indietro e troveremo il progresso.

Un abbraccio, Monica.
Anche a te, procedi bene come stai facendo, la passione, la costanza e lo studio ripagano sempre.

Immagine di copertina: Festival Leggere & Scrivere

A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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