Joan Miró a Napoli, un surrealista al PAN

Joan Miró a Napoli, un surrealista al PAN

Napoli apre le porte a una delle figure più affascinanti dell’arte moderna. Protagonista dell’arte del XX secolo, artefice di un linguaggio anticipatore, Joan Miró, colpisce per l’originalità creativa che scardina i dettami della pittura convenzionale. Mosso dal desiderio di “assassinare la pittura”, sente la necessità di individuare un nuovo modo di agire sulla figura. La sua curiosità, la sua fervida immaginazione, la sua personalità lo portano a codificare un nuovo linguaggio. Ed è proprio questo linguaggio – il linguaggio dei segni – che abbiamo modo di esplorare nella rassegna allestita al Palazzo delle Arti, attraverso le straordinarie opere della collezione dello Stato Portoghese, conservate al Museo di Serralves di Porto.

Joan Miró: la mostra al PAN di Napoli

Il mondo fantastico, onirico, febbrilmente creativo di Joan Miró arriva per la prima volta a Napoli. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, con il supporto del Ministero della Cultura Portoghese e il patrocinio dell’Ambasciata del Portogallo in Italia, è organizzata dalla Fondazione Serralves di Porto, si terrà fino al 23 febbraio 2020 al PAN Palazzo delle Arti di Napoli.

Tutte le 80 opere oggetto dell’esposizione sono sbalorditive, così come la storia che le ha condotte fino a Porto. Questo insieme di capolavori, appartenuti a uno dei più autorevoli e raffinati mercanti d’arte moderna, Pierre Matisse – figlio del più noto pittore Henri – rimane sconosciuta ai più per molti anni, finché il collezionista giapponese, che le aveva gelosamente custodite fino al 2005, decide di venderle al Banco Português deNegociós. Un semplice investimento per la banca portoghese che preferisce non esporle e tenerle al sicuro all’interno di un caveau. Quando il Banco Português, in forti difficoltà economiche, stabilisce di mettere sul mercato l’eccezionale acquisizione, si solleva una protesta su scala nazionale, tanto da far intervenire lo Stato Portoghese, che sospende la vendita e incarica il Museo di Arte Contemporanea di Serralves di conservarle.

Oggi, grazie al generoso prestito del Museo di Serralves, possiamo scoprire il fascino di una personalità multiforme, capace di ribellarsi alla pittura convenzionale dando  prova di essere uno dei più completi artisti del XX secolo. Miró però, con i suoi tratti fanciulleschi, con i suoi colori fondamentali e i suoi tocchi di incompiutezza, è un artista solo apparentemente semplice. Joan Miró esplora il linguaggio dei segni riducendo gli oggetti a elementi essenziali e in questo processo di riduzione e semplificazione ci invita a porre l’attenzione al dettaglio, ad esplorare gli elementi della costruzione del significato. Nel XXI secolo siamo ormai abituati a guardare immagini sempre più definite che si susseguono a grande velocità, mentre Miró ci impone di fermarci e osservare, cercare di capire il significato di una semplice linea. Un segno può delineare lo spazio e il carattere fisico del proprio supporto, allo stesso modo in cui può definire un oggetto o configurare una forma di scrittura.

La svolta artistica di Miró: il linguaggio dei segni

Le 80 opere esposte coprono il lungo arco della produzione artistica di Miró, dal 1924 al 1981; più di sei decenni di attività creativa in cui l’artista catalano sviluppa un linguaggio rivoluzionario che trasforma l’arte del XX secolo.

Nell’estate del 1924 Miró mette a punto una svolta radicale  nella sua indagine sulla formazione dei segni. Scrivendo a un amico, così descrive il suo recente lavoro: «Figurazione di una delle mie ultime x (non riesco a trovare la parola qui; non voglio dire tela o pittura.) […] Ritratto di un’affascinante amica parigina. […] Una linea verticale per i seni; uno è una pera che apre e sparge i suoi piccoli semi. […] Dall’altra lato, una mela beccata da un uccello. Scintille volano fuori dalla ferita causata da questo becco. […] Nell’angolo superiore della tela ci sono delle stelle. […] Si può a malapena definire un dipinto, ma non me ne frega un accidenti.»

​Facendo l’inventario del mondo che lo circonda, Joan Miró inizia a ridurre gli oggetti a semplici sagome e a elementi essenziali. Questo processo di riduzione e semplificazione elimina dal suo lavoro qualsiasi traccia di illusionismo rappresentativo e di spazio. Comincia a pensare alla superficie pittorica come a uno spazio destinato a segni e iscrizioni piuttosto che come a finestre sul mondo.

Un rapporto misurato e geometrico tra la figura e lo sfondo, tra massa e spazio era stato una costante della tradizione pittorica occidentale per cinque secoli. Miró, invece, mina la logica stessa di quel codice visivo: il segno diventa un sostituto di qualcosa che non è più fisicamente presente. Nel perfezionare e ampliare il suo vocabolario visivo, Miró sviluppa uno stile esclusivo e originale, inaugurando così un nuovo linguaggio dei segni, che modifica il corso dell’arte moderna.

Il grande merito di Miró risiede indubbiamente nell’aver saputo creare un linguaggio totalmente personale, sostituendo alla figura, considerata per secoli unica icona dell’arte, un nuovo alfabeto visivo creato dall’interazione tra segni e colore. Il punto di partenza di questa particolare espressione mironiana è, come di consueto, la realtà; la natura è il suo riferimento, disegna una figura che mano a mano perde concretezza lasciando poche tracce della sua presenza. Robert Lubar, ci accompagna durante la mostra, nella comprensione del dissolvimento dell’immagine esponendo come prima opera la Ballerina del 1924, in cui Miró lascia a poche linee il compito di evocare la leggiadria della donna in movimento. Con il trascorrere degli anni, l’artista elabora i pensieri basandosi su poche intuizioni, sempre molto semplici, piccole e arcaiche folgorazioni che delineano i fermenti della sua ricerca espressiva: «ho bisogno – diceva – di un punto di partenza, sia pure un piccolo seme o un raggio di luce. Qualsiasi forma mi suggerisce una serie di cose e ogni cosa ne fa nascere altre. Il capo di un filo può farmi scoprire il mondo.» È un uomo in costante movimento, curioso e attento, attinge da tutto ciò che lo circonda, a partire dall’arte classica, passando per la calligrafia giapponese fino all’Action painting americana con una continua necessità di rinnovarsi che gli consente di arricchire il proprio codice. Nessun materiale gli è estraneo come mezzo di espressione, crea su carta, tela, vetro, cartone, legno, iuta, qualunque sia il supporto finisce per trasformare gli oggetti in capolavori di impressiva capacità sintetica.

Il suo operato è frutto di un incessante lavoro: quanto meglio dominava una situazione, più sentiva la voglia di fuggirne, di avanzare. Questa eterna inquietudine è la forza motrice che lo porta a rinnovarsi fino agli ultimi lavori.

«Un quadro – diceva Miró – non si finisce mai, non si comincia nemmeno, un quadro è come il vento: qualcosa che cammina sempre senza posa», auspicava che le sue opere potessero essere un seme pronto a germogliare tra le mani delle future generazioni. Non possiamo che condividere la speranza che visitatori della mostra sapranno cogliere quel seme e farlo fiorire.

A proposito di Valentina Bonavolontà

Vedi tutti gli articoli di Valentina Bonavolontà

Commenta