Intervista a Silvia De Lucia | Missioni umanitarie nelle terre estreme del mondo 

Silvia De Lucia

Qualcuno direbbe che ognuno ha la sua missione, il suo “marmo da scolpire”, e forse Silvia De Lucia con La Nuova Thule ha provato a dare forma alla sua. Ci sono alcune persone che credono talmente tanto in determinati progetti da decidere di investire sé stessi completamente, e non si parla in questo caso del lavoro che finisce per assorbire anche le altre aree della vita, ma qualcosa che anzi rappresenti un proprio modo di viverla nel suo complesso.

Attraverso il progetto La Nuova Thule da ormai quasi tre anni Silvia De Lucia racconta le sue esperienze tra le missioni umanitarie nelle terre estreme del mondo. Fino ad ora è già stata in Brasile, Tanzania, Turchia, Tunisia, Ciad, Romania, Ucraina, Cambogia, India, Palestina, Gaza, poi ancora India, Marocco e attualmente si trova in Etiopia. 

Silvia De Lucia, l’intervista 

La scelta di Silvia è sicuramente una scelta di grande coraggio e consapevolezza rispetto ai propri obiettivi e alla propria visione del mondo. Ci racconta: 

dopo tanto fare e tanto lavorare in Italia ho deciso di ascoltare il cuore e di viaggiare per le missioni umanitarie, e non solo, nei luoghi più estremi del mondo, quelli che difficilmente vengono raccontati. Fin da piccola sentivo queste terre molto vicine anche se in realtà erano molto lontane da me ed ero stanca di vederle tramite la televisione, così ho deciso di viverle e sono poi diventate un po’ il mio respiro, adesso è quando torno qua in Italia che sento che non è più il mio posto… Invece quelle terre là, quei posti dimenticati, sono casa mia e la cosa più bella è riuscire poi a raccontarle agli altri. 

Le abbiamo chiesto: quando è scattata la scintilla? Da quanto tempo pensavi al tuo progetto prima che iniziasse a prendere forma? 

Era dentro di me credo dall’adolescenza, ma ancora non ero così consapevole. Avevo 16 anni, scoppiò la guerra in Siria nel 2011 e tramite quello che si vedeva nei telegiornali scattò proprio qualcosa dentro di me. È come se avessi visto e visualizzato qualcosa di talmente familiare… ricordo che durante quella guerra dissi “io voglio andare là, voglio essere là”. Mi ricordo questa sensazione, a chi potevo raccontarlo? Ai miei amici? Loro giustamente pensavano ad altro in quel momento. Quindi lì forse ho iniziato a capire che c’era qualcosa di più dietro quella sensazione… che forse casa e tutto il resto era in quei luoghi là. 

Poi sono cresciuta e ne ho fatte mille, in Italia ho lavorato nell’educazione e nel sociale, ho fatto anche volontariato, ma comunque non mi bastava, volevo che diventasse proprio la mia vita. Il Covid poi paradossalmente mi ha aiutata chiudendomi, lì ho proprio capito che dovevo fare un salto e superare le mie paure. Dall’adolescenza fino ai 27 anni, quindi per circa 11 anni, ho ascoltato più gli altri che me, però questa è un po’ una scusa perché ognuno è responsabile della sua vita… Diciamo che mi sono lasciata influenzare dai soliti discorsi… “ma dove vai? Tanto non cambi il mondo, ma poi sei una donna…  è difficile”. Poi alla fine basta, mi sono rotta e l’ho fatto. 

Il progetto è cominciato un po’ zoppicando, ero inesperta, dovevo ancora capire come mantenere questa cosa nel tempo. All’inizio ho semplicemente lasciato il lavoro – però con calma, non da un giorno all’altro – la famiglia, la casa… e sono partita per le prime missioni, poi dopo ho costruito tutto passo dopo passo. 

Chi era Silvia De Lucia in quella vita precedente di cui mi parlavi?

Ad oggi ti dico che la Silvia De Lucia di prima e quella di adesso sono due persone diverse. Ora mi sento un po’ più consapevole, cresciuta… però diciamo che quella Silvia De Lucia là era una Silvia che si è sentita sempre un po’ fuori dal coro, fuori posto, fuori luogo e sognatrice a livelli eclatanti, anche se quello in realtà lo sono ancora. Era una Silvia con mille robe da fare però sempre totalmente irrequieta, in tutti gli aspetti della vita, sempre a cercare qualcosa in più. Avevo meno consapevolezze, non meno coraggio perché l’ho sempre avuto, però forse ero più influenzabile dal giudizio degli altri, quello sì. 

Cosa invece è cambiato nettamente del progetto nel tempo? Dov’è la metamorfosi più grande?

All’inizio, dopo tanti anni di irrequietezza e di attesa, avevo solo voglia di buttarmi nel progetto, di crearlo… in primis viverlo. Ovviamente arriva il punto in cui dici okay… “il progetto è bello, mi piace, ma deve permettermi anche di sostenermi…” E quindi poi in realtà il livello successivo è stato quello di mettermi in gioco in altre cose e in altri aspetti, quindi sponsor, collaborazioni e scrittura di articoli. Anche la scrittura, per esempio, credevo fosse una cosa molto lontana da me, ora anche quella è pane. Quindi ho iniziato a lavorare ad articoli e reportage. Anche per i video all’inizio ero un po’ più acerba, tutto ciò che riguarda il raccontare è cresciuto nel tempo, poi è nata questa cosa della collana dei libri.

Non avrei mai pensato di scrivere un libro, però poi effettivamente ho pensato: qual era il modo più giusto per raccontare tutto? Così è diventato un impegno ma anche qualcosa di costruttivo per gli altri, per me, per il progetto. Quando ho iniziato ero io che scrivevo alle associazioni di volontariato, adesso sono le associazioni che mi chiamano e che cercano collaborazioni, e diventa quindi qualcosa di sempre più serio. È impegnativo ma è la parte che mi piace, è bello vedere la crescita. A volte vorrei che le cose fossero un po’ più veloci, è stato un processo lento. Però, ecco, è stato un processo e comunque ci sono altre cose in programma con le quali spero che il progetto cresca sempre di più. 

Quale missione è stata più impattante per te?

È sempre una risposta difficile da dare… Ogni missione ti lascia qualcosa, è stato proprio quello che ho aspettato per anni, il sentirmi poi effettivamente a casa, nel posto giusto in ogni missione. Prima non mi sentivo mai nel posto giusto, è stato poi bello vedermi nelle missioni del mondo più disparate, nelle situazioni più disparate e sentirmi poi in realtà nel posto giusto. Quella è la sensazione più bella perché la ritrovo in ogni missione, per me già quello è un punto forte. 

C’è un posto però dove mi sono sentita maggiormente a casa e che ho fatto fatica a lasciare ed è il Ciad, ma non tanto per il livello di impatto delle situazioni, in realtà ad un certo punto ho pensato che magari in una vita precedente avessi vissuto lì. Particolarmente impattante invece da un altro punto di vista – sia emotivo che un po’ in generale – è stata la Palestina. Poi in ogni luogo si vivono emozioni diverse e tutte le volte c’è comunque anche la tua vita, il tuo bagaglio familiare e personale con cui vivi in quelle situazioni. La Palestina è stata un’esperienza di forti emozioni, lì ho vissuto una grande adrenalina perché c’erano appunto spari, bombe, ecc. Le ho vissute a livello ancora più estremo rispetto all’Ucraina dove ero già stata, quindi speravo di essere più “allenata”, invece è stato totalmente diverso perché lì respiri un’aria di tensione e guerra diversa. 

Ti presenti come educatrice e reporter nel mondo. Avendo vissuto il mondo dell’educazione in diverse realtà, ti va di dirmi qualcosa sul concetto di educazione non formale, di cui si sente tanto parlare? Che differenze hai percepito nelle diverse esperienze in Italia e all’estero?

È un argomento enorme, io ho sempre vissuto l’educazione da un punto di vista non formale, perché poi appunto nelle comunità è necessariamente quello il principio, soprattutto se lavori con persone che vengono da tanti anni di droga e di disagio, di psichiatria… e forse questo mi ha in qualche modo “vaccinata” a situazioni abbastanza forti.

Io ho iniziato con questo corso di formazione per educatore sociale, poi ho fatto il servizio civile e appena dopo sono stata inserita in questa cooperativa con la quale ho girato tanti servizi, anche quelli meno attrattivi per me. Sono stata anche in comunità a Firenze, poi mi sono iscritta all’università… e lì mi sono resa conto della differenza. Ho visto un po’ il punto debole della formazione rispetto all’educazione in Italia, mentre quando ero in comunità con educatori con un’esperienza enorme… è là che ho fatto la vera scuola!

Quindi il punto debole è il pratico come sempre in Italia, ma credo che sia così un po’ in tutti i settori. Io su questo quando parlo dell’educazione insisto perché fare l’educatore è un lavoro pratico, non è fare l’insegnante, chi lavora come educatore o nel sociale lo sa, la scuola è quella della pratica. Ricordo che venivano assunti ragazzi che venivano dall’università, magari più grandi di me, e non sapevano dove mettere le mani, non per colpa loro ma per un sistema che effettivamente non funziona. 

Silvia De Lucia, una visione e suggerimenti sulle missioni umanitarie

A chi vuole iniziare a fare missioni e ambisce a professionalizzarsi sotto questo punto di vista, anche per rendere questo stile di vita sostenibile, consiglieresti la cooperazione internazionale?

Non c’è chiaramente una prescrizione del dottore, ci sono mille strade. Io non ho voluto prendere la strada della cooperazione internazionale e collaborare con le grandi ONG per scelta personale. Non c’è veramente un’etica forte ad oggi nella cooperazione internazionale, purtroppo. Nella maggior parte sono aziende che lucrano e basta, e purtroppo quando vado per il mondo e le incontro è sempre peggio la situazione. Sono rimaste proprio poche, forse Medici Senza Frontiere o altre piccole, a fare veramente quello che devono fare. Il resto è roba da mettersi le mani nei capelli. La mia decisione è stata quella di non affiancare loro perché effettivamente poi ci sono tanti aspetti etici che non vengono rispettati, il che è un’assurdità. 

Quindi ho scelto altre strade. Ci sono altre mille missioni, laiche o cattoliche, che fanno cose eticamente corrette e molto interessanti. Man mano che vado avanti l’etica diventa sempre più fondamentale. A volte ricevo richieste di collaborazioni e le rifiuto perché vanno contro la mia etica e io voglio dormire serena e tranquilla con la mia coscienza, altrimenti sarebbe inutile quello che vado a fare. Anzi, sarò molto onesta, lo scorso novembre ho fatto questa missione di due settimane in India con un’associazione e ho scoperto solo andando là che eticamente era una roba allucinante, quindi ho poi interrotto la collaborazione. Ci sto male, credimi, perché la presenza di organizzazioni che fanno cose scorrette non è poi sana per tutto, ed è una sconfitta vedere queste cose. Quindi la mia strada è diversa, ho approfittato mettendo tutto quello che mi piaceva in gioco, come il raccontare. Nel caso del settore sanitario è un altro discorso.

Poi si possono fare le missioni anche una volta ogni tanto, per esempio conosco tante persone che una/due volte l’anno si appoggiano ad un’associazione e vanno a fare volontariato. Oppure se si vuole diventare cooperanti davvero bisogna affiancarsi a grandi ONG, se appunto si vuole essere retribuiti. Ripeto, per il sanitario è molto più facile, quindi per medici e infermieri c’è molta più scelta con organizzazioni valide. Bisogna anche rendersi conto che il volontariato è una roba immensa quindi per chi si approccia è importante anzitutto capire che tipo di volontariato si vuole fare… sono tante cose da capire e da spiegare meglio. Mi rendo conto che non c’è molta informazione e conoscenza rispetto a questo mondo. 

Il mio suggerimento è scegliere un settore e prima di pensare di fare questo nella vita fare almeno un progetto di volontariato per capire di cosa si tratta, per capire se si riesce a stare dietro a queste cose, poi facendo le esperienze si aprono porte. A volte l’esperienza di volontariato è vista anche un po’ come un salvavita. Magari uno è in un momento un po’ delicato e dice okay… voglio andare a fare un’esperienza di volontariato, voglio lasciare tutto. Bisogna stare attenti, io non ho lasciato tutto da un giorno a un altro, la vita non scappa. Oggi siamo presi più dalla foga perché vediamo questi video “ho lasciato tutto, sono andata a vivere…” ma ci si scontra poi con la consapevolezza, quindi prima o poi i conti bisogna farli. La consapevolezza prima di tutto!

Per quanto riguarda la tua attività da reporter, a parte i canali social dove pubblichi le tue esperienze, dove possiamo trovare i tuoi contenuti? E, dato che dicevi che questa cosa ti era estranea prima ma l’hai coltivata poi nel tempo, come hai mosso i primi passi? 

I primi passi sono stati sempre solo azzardi, sono sempre andata per tentativi. Il primissimo è stato quello di collaborare con Ultima voce che è una rivista online, anche se non è stata una collaborazione felice. Abbiamo collaborato alcuni mesi e poi ho interrotto per scelta proprio perché io eticamente “se accade questo scrivo questo”, e invece mi era stato chiesto più volte di cambiare date, di camuffare cose e a me questo non è piaciuto. Poi ho iniziato a mandare articoli e reportage a Edera rivista. Con loro lo scorso mese ho ricevuto il premio per il miglior articolo dell’anno e quella è stata una piccola soddisfazione!

Silvia De Lucia: come cambiano le relazioni vivendo tra le missioni umanitarie nel mondo 

Com’è cambiato il modo di gestire e vedere le relazioni in uno stile di vita dove chiaramente sei molto più tempo fuori che “a casa”? Come affronti questa cosa?

La tecnologia ha aiutato molto in questo, io temevo di lasciare famiglia e amici ma in realtà poi si è creato un equilibrio molto sano nel restare in contatto e tenersi aggiornati. Ciò che è cambiato nelle relazioni lo percepisco quando torno, perché semplicemente anche io sono cambiata. Vedendo altre cose, altri contesti, per me “casa” è altro e tornare qua è come vivere nelle case altrui, anche se in realtà era casa mia fino a 3 anni fa, ormai. Quindi la relazione c’è, il bene c’è sempre. La famiglia poi, nonostante i litigi, c’è! E gli amici, che erano la domanda più grande, ci sono. Prima c’era il grande gruppo di sempre, poi si è un po’ sciolto, però ecco quando torno mi piace vederli e riunirci come prima. Si sono perse le conoscenze più effimere mentre invece si sono solidificati altri rapporti, anche alcuni tra quelli che prima non erano così forti.

Per quanto riguarda l’aspetto amoroso… Sono partita che avevo una frequentazione quindi niente di importante. È una cosa su cui mi sono interrogata tanto perché avevo una grande paura, ma era più qualcosa che gli altri mi riversavano addosso, perché mi dicevano “come farai a trovare una persona che ti segue nel mondo?” Quindi era diventata un po’ la mia angoscia in questi anni. Persone nel mondo le ho incontrate… ed erano relazioni e amori un po’ impossibili per via delle situazioni della vita, e poi in realtà dal niente in Cambogia ho incontrato questa persona in un progetto. Sono nati mille dilemmi su come si poteva mandare avanti una relazione… e lì seriamente ho capito quanto il mio progetto era importante perché avevo paura di metterlo da parte e questa era una cosa che non volevo fare. Per me, nonostante la frustrazione, era più importante il progetto, quindi in primis me stessa, e poi però c’era il dispiacere di non poter vivere l’amore come tutti…

È difficile perché devi fare delle scelte tutte le volte. È un misto tra l’angoscia di dover rinunciare a qualcosa e la fortuna di trovare una persona che invece continui a sentire e vivere anche a distanza, e di poterla rincontrare. Magari ho trovato una persona molto simile a me, lui è venuto a trovarmi in India, in Israele, in Palestina… c’è stato dell’impegno da parte di entrambi.

Quindi le relazioni non sono facili, si tratta di accettare ed essere consapevoli di essere anime che hanno il proprio stile di vita e, quello che dico sempre, è che richiede impegno. Perché sì ci vuole impegno a stare insieme tutti i giorni, ma ci vuole molto più impegno a condividere qualcosa a distanza e soprattutto a farlo crescere, ritrovarsi e anche riconoscersi, perché poi quando ti ritrovi ti ritrovi cambiato. Ognuno va avanti per la propria vita, quindi seriamente non è facile. Anche adesso c’è l’entusiasmo di dover partire e poi l’aspetto della fatica perché un po’ stai rinunciando a qualcosa. Però in realtà è una rinuncia materiale, perché poi appunto se quella cosa è vera e reale c’è anche da lontano.

Tocca tanto batterci la testa e imparare ad esserci anche a distanza come e quando si è presenti. Credo che le relazioni a distanza siano sorrette, anche inconsapevolmente magari, da un impegno reciproco più forte rispetto al normale.

Silvia De Lucia, un commento sulla spiritualità 

Come hanno impattato su di te le esperienze che hai fatto, da un punto di vista spirituale? In cosa credeva Silvia De Lucia prima di immergersi in “ciò che è all’estremo del mondo” e invece in cosa crede la Silvia di oggi? 

Silvia De Lucia nasce da una famiglia super cattolica, a casa mia c’è sempre stata una forte presenza della Chiesa che non ho mai condiviso, perché poi quando si portano le cose all’estremo non è mai sano. Poi la vita e l’esperienza mi hanno portata in missioni a volte gestite anche da cattolici, per esempio. Io avevo dei preconcetti forti, poi ho capito che in realtà è lo scopo che c’è dietro le missioni che importa, fin quando questo è sano non ci sono incompatibilità.

Confrontandomi con missionari, anche di altre religioni, ho scoperto che la spiritualità è lo stare bene con sé stessi e poi col mondo. Quindi cambiano i modi, i termini, però poi lo scopo di tutte le religioni è quello là, quello di stare bene con sé stessi e con gli altri, che è facile a dirsi però poi farlo è un’altra cosa… quindi è un lavoro di interiorità.

Il concetto di religione che abbiamo qua è completamente diverso, invece nel mondo i missionari vivono la vita vera e hanno proprio un altro approccio. C’è questo missionario, Claudio, che mi ha invitata a fare il Vipassana che è una pratica che appartiene al Buddhismo, ma lui mi diceva “no Silvia, la religione è un concetto più ampio… tutto quello che serve per farti del bene, per crescere… va bene, perché poi è in quello”. 

È stato difficilissimo stare lì a meditare perché i pensieri poi vanno a mille, ma in realtà – e in quel momento non lo avevo capito – mi ha fatto tanto bene quella cosa là. Grazie a quella esperienza, per esempio, quando mio padre è morto (quasi tre anni fa) io sono stata in grado di accettarlo. Fui in grado, non mi chiedere come e perché, di lasciare andare un dolore immenso. Fino a prima di fare quella esperienza avevo ancora delle crisi molto forti rispetto alla morte di mio padre, che poi non ho più avuto! Io proprio mi ricordo che ho lasciato andare quel dolore, l’ho accettato. Non per questo se penso a mio padre non piango o non sto male, ma è più una cosa sana, io avevo invece delle crisi belle forti. Semplicemente sono mezzi che magari non riesci ad apprezzare sul momento perché non vedi i risultati, sembra che non succeda nulla… invece dentro di te accade il mondo. 

Anche parlando con i vari missionari mi sono resa conto che la preghiera in sé è fare meditazione, perché la preghiera non è chiedere qualcosa a Dio ma è più una cosa con sé stessi, quindi appunto il riunirsi in sé stessi ti fa crescere interiormente. 

Poi ho scoperto che è un processo in realtà enorme perché pensi… “ah allora sto crescendo, sto migliorando!” Invece è sempre un percorso veramente lungo ed estremo, però è importantissimo. Sono quelle cose che ti aiutano a superare determinati eventi, ti aiutano a farti stare in piedi, a farti essere più consapevole. La spiritualità è quella parte fondamentale, puoi essere chiunque, puoi fare 100 mila cose… però la vita ti colpisce, colpisce tutti e quindi si arriva sempre poi al punto di fare i conti con il dolore. Più hai lavorato su te stesso, più da quei dolori riesci a prendere anche un insegnamento.

Ad ognuno il suo progetto da scolpire

Potremmo dire che ognuno abbia il proprio progetto da scolpire nascosto nel marmo. Sembra che tu sia completamente centrata nel tuo, a chi lo sta cercando o sta provando a scolpire, che suggerimento daresti? Secondo te quali possono essere dei limiti e invece quali non lo sono assolutamente?

La prima cosa che mi viene da dire, e su questo ci ricasco a volte anche io, bisogna ascoltare la voce interiore che è quella fondamentale, solo che purtroppo poi viene schiacciata dall’ambiente circostante, dalle persone che stanno intorno, dalle persone che vorrebbero fare la stessa cosa tua però non hanno il coraggio, persone che non credono in te ma semplicemente perché sono bloccate nella loro vita. Quindi l’interpretazione è che per gli altri è difficile. A volte la prima cosa che facciamo quando abbiamo un dubbio è andare a chiedere a qualcuno o confidarci con qualcuno.

Il problema è che ognuno riflette poi in te le sue paure, le sue scelte e il suo essere, e in realtà è sbagliato anche quello. In primis è importante ascoltare la propria voce e prendere la paura per buona. Io per esempio ormai ho imparato il mio meccanismo e adesso so che prima di partire, anche se per me partire è ossigeno, due giorni prima arriva la paura che mi bussa e dice “no, non lo devi fare, non devi partire”. Mi è successo la prima volta che sono partita, stavo veramente per disfare lo zaino e dire: ma dove sto andando? E quindi oramai ho imparato a conoscerla, so che è sana, so che ci deve essere ma non le do ascolto, perché la paura veramente ti fa mettere in dubbio te stessa e quello che stai facendo.

Quindi il suggerimento di Silvia De Lucia è ascoltare la voce interiore, quella sana dei giorni precedenti, non ascoltare quella di quando stai per partire, e in realtà invito a prendere la paura come amica. Se hai paura vuol dire che è la scelta giusta perché la paura è qualcosa che arriva quando la mente dice “io non conosco questa sensazione, non conosco questa cosa, non lo devi fare” ed è lì che va ascoltata ed assecondata perché vuol dire che stai facendo una cosa giusta.

Una cosa che per me è stata fondamentale è stato leggere il libro Ikigai, che è il metodo per trovare il senso della tua vita, che ti fa queste domande che vanno nel tuo inconscio… ti fa rispondere e tu tramite queste domande visioni esattamente chi sei, quello che vorresti fare e quello che vorresti essere. Ricordo che questo libro non l’ho nemmeno finito perché alla quinta pagina avevo già visualizzato tutto, ed è lì che ho detto “basta, io lo faccio!”.

Poi quando sei allineato con te stesso anche la vita si allinea in qualche modo, è paradossale ma è sempre così, quindi poi quello che devi trovare lo trovi per strada, le persone che ti possono aiutare le trovi per strada ed è assurdo, sembra banale e la solita frase fatta, ma affidarsi alla vita – che è la cosa più difficile del mondo – è poi l’elemento principale. Uno si deve fidare prima di sé stesso, delle sue capacità e poi della vita. Noi tendiamo ad affidarci sempre agli altri, quando in realtà gli altri devono essere messi in secondo piano per prendere le nostre scelte. 

Fonte immagini: Silvia De Lucia 

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