Il periodo che intercorre tra il 1945 e il 1991 ha un nome ben definito: la Guerra Fredda. Quest’ultima è stato un periodo di stallo estremamente pericoloso per l’integrità del sistema internazionale. Entrambe le potenze protagoniste, USA e URSS, possedevano una grande quantità di strumenti di deterrenza atomica tanto da lasciar col fiato sospeso tutto il mondo. Questo bipolarismo, da una parte, arrecava danno al sistema globale, dall’altra manteneva, paradossalmente, il cosiddetto equilibrio di potenza all’interno dello scenario geopolitico. Come diceva Lavoisier «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Oggi come allora, la guerra fredda tra potenze nemiche è presente, ma in un’altra forma: la guerra fredda dei microchip.
Perché i microchip sono il nuovo terreno della competizione geopolitica
I microchip sono la nuova frontiera della tecnologia da ormai un ventennio: fanno parte della categoria dei semiconduttori.
- Dal punto di vista economico, possono essere considerati come il nuovo petrolio. Perché? Perché i microchip sono ormai indispensabili per IA, 5G, armamenti e automotive.
- Dal punto di vista geopolitico, invece, le aree che dominano la produzione sono: Stati Uniti, Russia, Cina, Taiwan e Unione Europea.
Nel pratico, Taiwan utilizza la produzione di microchip come vera e propria arma di deterrenza nei confronti della Cina. Difatti, Taiwan (e in parte la Corea) coprono il 70/80% dei microchip più avanzati , e la dipendenza dello Stato cinese è netta. Questo fenomeno è definito dagli esperti weaponization of interdependence, ossia la modalità con cui gli stati sfruttano una dipendenza tecnologica come arma.
I rischi geopolitici della Guerra Fredda dei microchip
I principali rischi per il sistema internazionale sono due:
-
La fragilità della supply chain, che potrebbe mettere in crisi l’economia globale e qui equilibri geopolitici.
-
La presenza di oligopoli, con troppe poche aziende chiave a dominare il settore, come TSMC, Samsung, ASML, Nvidia e Intel.
Questi due elementi riflettono una società che vive un’insicurezza internazionale diffusa, tanto politica quanto economica. Il mercato, in questo caso, è fortemente influenzato dall’interventismo statale, che attraverso delle misure stringenti crea nuovi limiti.
Perché chiamarla Guerra Fredda dei microchip?
Analizzando la letteratura scientifica, la “guerra” sui semiconduttori segue le stesse logiche della Guerra Fredda: non si parla di uno scontro militare diretto, ma di una lotta ideale per un’egemonia tecnologica e strategica.
Ma quali sono le mosse degli Stati? Da una parte sono presenti gli Stati Uniti che impongono delle vere e proprie restrizioni all’export di chip avanzati e all’export di macchinari di litografia, nei confronti della Cina. In questo modo tentano di accaparrarsi un vantaggio in contesti come IA e difesa.
Invece, Pechino risponde con una serie di massicci investimenti pubblici in autosufficienza (come il caso del chip a 7nm di Huawei/SMIC) oppure usando come arma i minerali critici (gallio, germanio, grafite).
Infine, l’Unione Europea gioca il suo ruolo centrale: basti citare il Chips Act e il ruolo di ASML come collo di bottiglia.
In sostanza, siamo davanti ad una partita a somma zero, in cui geopolitica e tecnologia si intrecciano polarizzano ulteriormente il sistema globale.
Futuro: tra innovazione e geopolitica
La corsa ai microchip non è solo economica o industriale: è parte integrante della competizione geopolitica del XXI secolo.
- USA: difendono la propria supremazia egemonica attraverso strumenti economici pesanti (sanzioni e incentivi).
- Cina: punta su una strategia di autosufficienza con forti investimenti pubblici.
- Unione Europea: come spesso accade, prova a ritagliarsi il suo spazio di indipendenza e sovranità.
I semiconduttori ricalcano così le stesse simmetrie della Guerra Fredda originale: non vince chi produce di più (armi o microchip), ma chi controlla i materiali, le rotte commerciali e le filiere.
Fonte dell’immagine in evidenza: Immagine di callmetak su Freepik