Rifiutarsi di sostenere l’orale alla maturità: un no che ha tante sfumature e non va banalizzato
La notizia dei maturandi che hanno rifiutato l’esame orale ha scatenato reazioni tanto prevedibili quanto miopi. Da un lato, il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, che ha liquidato il tutto come “esibizionismo” e un “modo a buon mercato per avere visibilità mediatica”. Dall’altro, la risposta muscolare del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che ha prontamente annunciato che chi rifiuterà l’orale, in futuro, sarà bocciato.
Eppure, fermarsi a questa lettura superficiale, a questa dicotomia tra “bravata adolescenziale” e “punizione esemplare”, significa chiudere gli occhi di fronte a un malessere profondo e condiviso, che unisce, in un’unica spirale di frustrazione, non solo gli studenti ma anche i docenti. Il “NO” di questi ragazzi non è un semplice capriccio, ma il sintomo di una male che affligge l’intero sistema scolastico, un disagio profondo che le decisioni ministeriali, anziché curare, puntualmente aggravano.
A sostenere la complessità del fenomeno è anche la psicologa Chiara Rotunno, che lavora quotidianamente con i ragazzi allo Snodo di Aversa tramite l’associazione Patatrac e nelle scuole con progetti e laboratori. Secondo la dottoressa, “il gesto di alcuni studenti che, in questi giorni, hanno scelto di non sostenere l’esame orale di maturità non può essere letto solo come una provocazione o una ribellione adolescenziale. È, piuttosto, un atto simbolico, un ‘NO’ che porta con sé un bisogno inascoltato, un disagio che affiora e che interpella non solo il sistema scolastico, ma l’intero mondo adulto”. Quel rifiuto, spiega, “è il tentativo, magari maldestro ma potente, di decostruire un sistema che oggi viene percepito come obsoleto, performativo, talvolta disumanizzante“.
L’autorità che non ascolta e la protesta imbavagliata
La protesta degli studenti è un atto contro un’autorità percepita come sorda e un modello scolastico, trasformato in un’azienda ossessionata dalla performance e dalla “fabbrica delle competenze”. Come ha spiegato una delle studentesse, la critica è rivolta a una scuola dove “i docenti non guardano come sta lo studente davvero. Sono solo interessati al voto e questo crea molta competitività”. È un grido, questo, che chiede ascolto, empatia, un ritorno alla dimensione umana dell’educazione.
La psicologa sottolinea come “i ragazzi parlano un linguaggio che non sempre viene compreso, fatto più di simboli che di parole, e troppo spesso etichettato come ‘capriccio’ o ‘disobbedienza’”. “Ma è proprio da questi segnali che possiamo cogliere una verità più profonda”, prosegue, “i giovani non si riconoscono in una scuola che valuta la Persona attraverso il voto, che lega il valore allo standard, che confonde il merito con la competizione. Una scuola che, nella rincorsa alla prestazione, rischia di smarrire la sua vocazione educativa”.
Contestare l’autorità in Italia, d’altronde, pare esser diventato un atto quasi sovversivo, da etichettare immediatamente con accuse di immaturità o nullafacenza. La reazione del Ministro Valditara ne è la prova lampante: invece di interrogarsi sulle ragioni di un gesto così forte, ha scelto la via più semplice, quella della repressione. Una linea che si inserisce in un quadro più ampio ed avvilente, come dimostra il recente “decreto condotta”. Si pretende rispetto per l’istituzione, dimenticando che l’autorevolezza non si impone, ma si conquista con l’ascolto, la presenza e la comprensione.
Le riforme della scuola, ovvero la pietra tombale sul futuro dei docenti
Questa malattia, però, ha radici più profonde, riguarda anche chi è dall’altra parte della cattedra. E sono proprio i decreti di quello stesso Ministro ad aver posto una pietra tombale sul sistema di reclutamento dei docenti, alimentando un circolo vizioso di precarietà, stanchezza e demotivazione.
Le riforme del reclutamento, legate ai meccanismi del PNRR, si sono tradotte in percorsi labirintici e onerosi. I nuovi corsi abilitanti da 30 e 60 CFU hanno costretto i precari a pagare di tasca propria per poter sperare di continuare a lavorare, spesso senza alcuna garanzia di stabilità. È un paradosso crudele: si chiede ai docenti di investire tempo e denaro in una formazione che, alla fine, li riporta al punto di partenza, in un limbo di precarietà senza fine. Vincitori di concorsi che non ottengono una cattedra, la continua battaglia legale per ottenere la “carta del docente”, sono solo alcune delle iniquità che chiudono il cerchio di un’instabilità sistemica.
Con più della metà del corpo docente sopra i 50 anni e stipendi tra i più bassi d’Europa, la scuola italiana è un sistema al collasso. A questo si aggiunge un carico burocratico insostenibile: in certi periodi dell’anno, i docenti sono letteralmente sommersi da scartoffie, scadenze e progetti inutili che rubano tempo prezioso alla didattica, alle discussioni e alle riflessioni condivise in classe. Come possono insegnanti sfiniti, demotivati e privati di dignità professionale “vedere” i loro studenti, accendere in loro la passione e costruire un dialogo educativo?
La dottoressa Rotunno evidenzia come “il disagio che emerge oggi tra i banchi di scuola, è una condizione quasi speculare tra studenti e insegnanti, spesso lasciati soli, disorientati da percorsi abilitanti costosi e logoranti, intrappolati in una precarietà che toglie dignità e continuità. È una scuola in affanno, stanca, che non riesce più ad accogliere né chi insegna né chi apprende. E se gli adulti si sentono traditi dal sistema, i giovani lo rifiutano. Con forza, talvolta con rabbia. Ma soprattutto con coraggio”.
Non sostenere l’orale alla maturità: elogio di una protesta silenziosa
Il malessere dei ragazzi e quello dei professori non sono altro che due facce della stessa medaglia. L’instabilità degli uni riflette quella degli altri. Entrambi sono vittime di un sistema che ha smarrito la sua funzione essenziale: essere un luogo di crescita e di sviluppo del pensiero critico.
Come osserva la psicologa, “questa protesta è una richiesta chiara di ascolto e riconoscimento. Non una sfida da zittire, ma una domanda relazionale da accogliere“. “La scuola”, prosegue, “dovrebbe essere un luogo di crescita identitaria, di costruzione del pensiero critico, non solo di trasmissione di contenuti. Invece, si muove oggi tra due estremi: da un lato un’autorità rigida, sorda al dialogo; dall’altro, una deriva eccessivamente clinica, in cui si finisce per usare le diagnosi come etichette che riducono la complessità del vissuto giovanile”.
Invece di condannarlo, dovremmo forse elogiare questo gesto di disobbedienza. In un’epoca di contrapposizioni urlate, questa forma di protesta non violenta, che utilizza le regole del sistema per metterne a nudo le contraddizioni, è un atto di intelligenza e di coraggio. Il rifiuto a sostenere l’esame orale da parte di Gianmaria Favaretto del liceo scientifico Fermi di Padova, di Maddalena Bianchi del liceo scientifico di Belluno e dello studente del liceo classico Antonio Canova di Treviso non è un atto di esibizionismo. È un atto di protesta che deve servire a mettere luce sulle crepe di un sistema e a offrirci un prezioso momento di riflessione.
“Siamo davanti a un’occasione preziosa“, conclude Rotunno. “Possiamo scegliere se reprimerla o ascoltarla. Se vedere in questi ragazzi degli indisciplinati, o dei cittadini in formazione che ci chiedono – nel modo che conoscono – di essere visti. Comprendere non significa giustificare tutto, ma dare dignità alla complessità di ciò che accade. Solo così, forse, potremo trasformare questo NO in un’occasione autentica di cambiamento”.
Un cambio di paradigma fondato sull’ascolto e sull’empatia verso gli studenti, ma anche sulla concreta e non più rimandabile valorizzazione dei docenti, che passa necessariamente per la fine del precariato strutturale e l’abolizione di percorsi formativi umilianti, inutili e costosissimi come i CFU. Solo così si può restituire un senso al fare scuola. Un senso che, attualmente, sembra mancare.
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