Stefania Spanò: Nannina o dell’arte del cuntare

Stefania Spanò

Stefania Spanò vince il Premio letterario IoScrittore 2021 – l’unico torneo letterario italiano gratuito promosso dal gruppo editoriale GeMS: una formula di scouting innovativa, aperta e incentivante che permette agli autori emergenti di pubblicare i loro romanzi – e pubblica così il suo primo romanzo, “Nannina o l’arte del cuntare”: l’altro, il più onesto e affettuoso cunto di Secondigliano.

«Faceva la cuntista, anzi, come diceva lei, la cuntastroppole»

«Stephanie, i cunti li fanno i vivi per i morti. Te l’ho già detto, no? […] Sono i morti stessi che raccontano attraverso di noi per pareggiare i conti con chi resta […] Quando volano in cielo, i morti vedono le cose dall’alto e possono guardare i passi che hanno fatto sulla terra».

L’arte del cuntare, Stefania Spanò la riceve come un’eredità preziosa e rara direttamente da sua nonna, eredità napoletana che la scrittrice mette a frutto per scrivere un romanzo dalle sfumature vivaci e malinconiche, delicate ed emozionanti. Il romanzo è diviso in due parti e in esergo a ogni capitolo, come ogni cunto che si rispetti, vi è un titolo introduttivo. La prima parte del romanzo è la storia di Nannina, una moglie e una madre di sei figli cresciuti a “furia di cunti” e che di mestiere «faceva la cuntista, anzi, come diceva lei, la cuntastroppole»: «una cuntrastroppole è una che fa i racconti a grandi e bambini. In napoletano li chiamano cunti». Il piccolo atrio di casa sua diventa il luogo in cui, su sedie arrangiate, si accomoda il suo pubblico: gente del paese, ma anche gente di fuori, che va lì per ascoltare e “vedere” i suoi racconti, per godere cioè delle doti attoriali di una donna troppo napoletana per non essere trascinante, dal portamento austero e austeramente divertente. Un po’ per caso, un po’ per destino o ancora per caparbietà, Nannina finisce in manicomio e da lì diventa per tutti non più Nannina la cuntastroppole, ma Nanninella ‘a pazza. «Da parte sua, Nannina quel nome se l’era messo addosso come un vestito nuovo che, ti piace o non ti piace, è della misura tua, ti sta».

Dall’altro lato del romanzo, nella sua seconda parte, è Stephanie che parla in prima persona, una piccola incarnazione dell’autrice che a Secondigliano è costretta a trascorrere la propria infanzia rinchiusa entro le mura di casa: neppure il balcone è sicuro per una mamma premurosa come Adelina, spaventata dagli “improvviso” in un quartiere “pericoloso” come Secondigliano. Tuttavia, Stephanie riesce a trovare le sue vie di fuga, seppure nei confini del suo palazzo, intrufolandosi spesso nella casa della dolcissima zia Rosetta, dove vive anche sua nonna Nannina. Qui scopre con grande fatica e indignazione – per lei è già troppo tardi quando questo avviene perché, come dice lei stessa, “le cose antiche si devono sapere” – quello che è veramente stata sua nonna anni prima e crescerà dentro di lei la smania di scoprirne sempre di più – che nasce da un’altra smania, quella di conoscere a fondo sua nonna- insieme a un profondo orgoglio: «Perché io a Secondigliano non sono la nipote della cuntastroppole invece che la nipote della pazza?».

Stephanie ottiene dalla nonna di recitarle un cunto, ma l’ostacolo al ricominciare a raccontare al popolo e per il popolo, per Nannina sembra essere proprio Secondigliano, un quartiere che non sa più ascoltare, preso com’è dalla viltà e dalla cecità che sono come effetti collaterali di una città criminale, un quartiere visitato dalla Morte e scordato da Dio come lo definisce lei stessa: «Cunta’ era una parola che molti, soprattutto i giovani, non conoscevano più. […] A Secondigliano non ci credevano più che qualcuno fosse lì senza pretese, solo per condividere un momento, un disagio, un luogo». Come un fardello dolcissimo e insieme faticoso, Stephanie, ormai pre-adolescente, capisce quello che è il compito, tacito e mai esplicitamente affidatole, di continuare, come per discendenza diretta, il cunto di sua nonna: «Nannina non ce l’ha mai avuta su con me. Mi sta facendo posto. E non ha mai smesso di cuntare. I ricami sono l’estremo tentativo di raccontare un quartiere che non comprende più e che s’aspetta sia io a decifrare».

Nannina o l’arte del cuntare è allora un romanzo per tutti. Per chi ama la propria città, nonostante gli stereotipi che la assillano, e chi vuole ripristinare o riscoprirne la ricchezza che è anche la sua gente. Ora adulta, Stefania Spanò ha realizzato il suo cunto: un romanzo su Secondigliano, ma anche un romanzo sull’amore e sulla famiglia, piena delle sue contraddizioni, ma sempre autentica: con Nannina o l’arte del cuntare, la Spanò scrive una storia personalissima – un “racconto” – dai tratti autobiografici “verosimili e mai veri” per omaggiare una pratica antichissima se non eterna, chi gliel’ha tramandata e il luogo che l’ha ascoltata.

Fonte immagine di copertina: IoScrittore

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