Io so di Pasolini: l’uomo che sapeva troppo

io so di pasolini, l'uomo che sapeva troppo

Pasolini (1922 – 1975) è stato il perfetto esempio dell’artista a tutto tondo: oltre alla cultura sconfinata, la sua arte era estremamente versatile. Infatti Pasolini si è agilmente destreggiato tra scrittura e poesia, tra cinema e sceneggiatura fino alla pittura. Quest’uomo è ancora oggi tanto amato, ricordato e onorato soprattutto per il suo essere controverso… oppure, sarebbe meglio dire, per il suo essere crudelmente onesto e vero: lo sguardo di Pasolini era capace di cogliere qualsiasi dettaglio della realtà, le sue parole sono state spesso causa di focose polemiche e importanti dibattiti e il suo animo critico gli ha permesso di giudicare oggettivamente l’ambiente in cui è nato e ha vissuto, un’Italia soffocata dall’ipocrisia e dal falso perbenismo. Pasolini aizzava facilmente gli animi, soprattutto quando si scagliava contro le abitudini borghesi («bruti stupidi automi adoratori di feticci»), la società del consumo, il bigottismo nei confronti di temi come l’aborto o il divorzio e anche contro i protagonisti del ’68 («figli di papà»).

Non si parla spesso, però, dell’articolo che Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera il 14 novembre 1974, un anno prima della sua morte, intitolato: Cos’è questo golpe? Io so. Questo è lo scritto che mostra, più di tutti, il coraggio intellettuale di Pasolini: al tempo, venne giudicato scandaloso. Purtroppo questo è anche il periodo in cui la figura dell’intellettuale va scemando a causa della debolezza di pensiero e di opinione e, soprattutto, per il silenzio dettato dall’opportunismo.

Il contesto italiano per capire i temi di Io so: dai moti del ’68 al terrore degli anni di piombo

Pasolini scrive quest’articolo nel periodo difficile della Prima Repubblica Italiana, quello rivoluzionario del Sessantotto e degli anni di piombo. In breve, alla fine degli anni Sessanta, studenti e operai stavano maturando consapevolezza sui diritti civili, ovvero sul femminismo, sul diritto all’aborto, sul divorzio, sull’inserimento dell’educazione sessuale nelle scuole e così via. Perciò le proteste mettevano in dubbio le istituzioni del tempo e si scagliavano contro la società conservatrice, cattolica e imprenditoriale chiedendo così parità e ascolto. L’era del terrore italiana, ovvero gli anni di piombo, scoppia l’anno dopo le proteste, ovvero il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana. L’Italia affronta quindi un periodo pregno di terrorismo neofascista, eppure ancora oggi sappiamo poco o niente dei mandanti e degli artefici di queste stragi: Piazza Fontana, ad esempio, ha visto ben dieci processi in trentasei anni da cui abbiamo ricavato nomi su nomi ma zero condannati, poiché i militanti di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura, sono stati assolti nel 1987 e nel 2005.

Ancora, la strage del treno Italicus dell’agosto 1974 si conclude anch’essa con l’assoluzione di tutti gli imputati, nonostante sia ad oggi risaputo che gli organizzatori dell’attentato fossero stati gruppi d’estrema destra e la loggia P2. Oppure la strage di Bologna, l’attentato del 1980 che chiude gli anni di piombo, che ha visto una fitta trama di depistaggi grazie alla P2 di Licio Gelli e al SISMI (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) capitanato da importanti agenti (come Pazienza) e due alti ufficiali (Musumeci e Belmonte). Insomma, al tempo non si sapeva ancora, ma la causa di questi attentati si doveva a personaggi che gestivano i rapporti tra Stato, servizi segreti, mafia, gruppi di estrema destra (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Rosa dei Venti sono solo alcuni esempi) e le operazioni paramilitari della CIA.

L’analisi succulenta di Io so di Pasolini

Ergo, Pasolini chiama in causa tutte le ingiustizie sociali del suo tempo dichiarando di conoscerne i colpevoli: dagli organizzatori ai mandanti e agli esecutori. L’accusa di Pasolini è pesante, poiché punta il dito alla classe dirigente del tempo: Io so è quindi una disperata richiesta della libertà di stampa. Quest’articolo, inoltre, mette in evidenza la delusione dell’autore nei confronti degli altri intellettuali: è proprio in questo periodo che questa figura va scemando, morendo, poiché l’intellettuale non è più come quello di prima, ovvero un personaggio rumoroso e fastidioso, colui che tanto parla e tanto fa. Pasolini è infatti diverso dagli altri perché la sua critica sociale non ha alcun obiettivo di vanto o di autocompiacimento; se lui parla è per arrivare alla verità, è per fare del bene comune e non proprio.

L’articolo è quindi la testimonianza di un sistema corrotto e subdolo, scandaloso quindi per i suoi anni; basti pensare che in molti sono convinti che la sua morte, avvenuta il 2 novembre 1975, sia stata voluta e orchestrata proprio da chi lo considerava scomodo. Infatti l’uomo accusato di aver ucciso il poeta, Giuseppe Pelosi, ritratterà solo nel 2005 la propria colpevolezza: «ormai saranno tutti morti oppure vecchi quelli che ci hanno riempito di botte quella sera, per questo ora non ho paura di parlare». Ma nel 2015 la Procura della Repubblica archivia il caso, e ancora oggi la scomparsa di Pasolini rimane avvolta nel mistero.

«Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.»

Pasolini nomina anche la strage di Brescia, un atto terroristico neofascista avvenuto a piazza della Loggia: il 28 maggio 1974 esplose una bomba posta in un cestino portarifiuti durante una manifestazione contro gli attentati neofascisti. Dopo anni di processi e depistaggi, vennero condannati i membri di Ordine Nuovo: Maurizio Tramonte (fonte anche dei Servizi Segreti Italiani), Carlo Digilio (addetto agli esplosivi già individuato dai processi di Piazza Fontana) e Marcello Soffiati; il mandante è stato invece il dirigente ordinovista Carlo Maria Maggi. Morirono otto persone e ne rimasero ferite centodue.

«[…] Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.»

Pasolini potrebbe riferirsi all’operazione segreta Gladio promossa dalla stessa CIA, un servizio di spionaggio estero con l’obiettivo di costituire organizzazioni paramilitari stay-behind e guerra psicologica per contrastare il comunismo. L’esistenza di Gladio viene rivelata nel 1984 da Vincenzo Vinciguerra, membro di Avanguardia Nazionale, neofascista; fu poi riconosciuta ufficialmente nel 1990 dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Per quanto riguarda i colonnelli greci, Pasolini si riferisce al ruolo che giocarono alcuni paesi stranieri – in primis gli USA – nella «strategia della tensione», ovvero la strategia di destabilizzazione istituzionale. La Grecia fu un tassello importantissimo per l’organizzazione degli attentati neofascisti, poiché proprio ad Atene si riunivano gli estremisti di estrema destra nominati poc’anzi e incluso il FUAN, l’organizzazione universitaria dell’MSI. Alcuni nomi sono Stefano Delle Chiaie (indagato per Piazza Fontana) e Franco Freda. Inoltre si dice che proprio la Grecia fosse il centro d’addestramento della CIA per le sue operazioni segrete. Anche in questo paese avvennero, similmente all’Italia, una serie di attentati e di provocazioni anticomuniste: la differenza sostanziale è che in Grecia il colpo di stato dei colonnelli ebbe successo, stabilendo una dittatura d’ispirazione fascista (La Giunta) dal 21 aprile 1967 fino al 24 luglio 1974.

«Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista).

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.»

Pasolini sta alludendo al fallito golpe Borghese avvenuto nella notte dell’8 dicembre 1970, nel quale erano presuntamente coinvolti vertici militari, membri di ministeri, esponenti dell’estrema destra, la P2 di Licio Gelli, i mafiosi di Cosa nostra e la CIA (solo nel 2004 si è scoperto ufficialmente che il piano di Borghese era noto agli Stati Uniti). Questo tentativo di colpo di stato, chiamato anche golpe dei forestali o dell’Immacolata, venne organizzato da Junio Valerio Borghese, fondatore del Fronte Nazionale neofascista, in collaborazione con Avanguardia Nazionale. Insomma, Pasolini anticipa l’esito del processo penale: infatti, tra il 1984 e il 1986, la Corte d’Assise di appello di Roma ha assolto con formula piena tutti i quarantasei imputati, «il fatto non sussiste», inclusi coloro che avevano ammesso di aver preso parte al golpe.

Viene nominato anche il generale e politico italiano Vito Miceli, al tempo direttore del Servizio informazioni difesa (SID). Miceli, nel 1974, venne arrestato per supposto coinvolgimento in attentati e stragi e per favoreggiamento del golpe Borghese, ma nel 1978 fu assolto in definitiva. Il suo nome è associato a Gladio e compare nella lista degli appartenenti alla P2.

«[…] Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. […]
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.»

Da questo momento Pasolini spiega la sua idea di intellettuale e come concepisce la sinistra dei suoi anni.

«[…] Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

[…] Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

[…] Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico.
In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.

Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo. […] Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.

[…] Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
[…] Probabilmente – se il potere americano lo consentirà […] questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.»

Menzione ad honorem: la lettera ad Antonio Ghirelli

Nella lunga lettera inviata al giornalista ed ex direttore de Il Mondo, Antonio Ghirelli, Pasolini ci fa capire appieno come concepisse il degrado italiano del suo tempo: parole e accuse forti le sue, ma anche veritiere e troppo avanzate per l’epoca.

«Caro Ghirelli,
credo che mi resterà a lungo impressa nella memoria la prima pagina del «Giorno» del 21 luglio 1975.
[…] Ora, quando si saprà, o, meglio, si dirà, tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle élites colte italiane. E quindi la loro omertà.

[…] Tu, caro Ghirelli, ti sei accinto da qualche settimana all’impresa di dirigere una rivista politico-culturale. Mai una simile impresa è stata più difficile che in questi anni, perché mai la distanza tra il potere (quello che in un articolo di varietà ho chiamato il «Palazzo») e il Paese è stata più grande. Si tratta (dicevo) di una vera e propria diacronia storica: per cui nel Palazzo si reagisce a stimoli ai quali non corrispondono più cause reali nel Paese. […] Ognuno di tali potenti si assume le sue responsabilità (mai però, finora, pagate): e grazie a questa separazione delle responsabilità, salva l’insieme del potere.

[…] In conclusione, il PSI e il PCI dovrebbero per prima cosa (se vale questa ipotesi) giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente gli ultimi dieci) l‘Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos (promotore del colpo di Stato del 1967 in Grecia). […] E quivi accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente (sperando nell’eventualità che, almeno, venga prima o poi celebrato un «processo Russell» finalmente impegnato e non conformistico e trionfalistico com’è di solito):

indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.»

Conclusione: Pasolini e Zola

Vorremmo concludere con le parole di Émile Zola (1840 – 1902) nella sua lettera aperta a Félix Faure, all’epoca presidente della Repubblica francese. Pubblicata nel 1898 dal giornale L’Aurore, lo scopo della lettera di Zola è denunciare pubblicamente le irregolarità e illegalità dietro l’affaire Dreyfus, militare d’origine ebraica condannato ingiustamente per alto tradimento. Nel 1894 Dreyfus fu accusato di passaggio d’informazioni segrete all’Impero tedesco, acerrimo nemico della Francia in quel periodo. L’avvenimento divise l’opinione pubblica: da una parte c’era chi sosteneva che questo fosse un assurdo caso di antisemitismo, razzismo e nazionalismo; dall’altra nazionalisti, antisemiti e militari. Zola denuncia quindi i nemici «della verità e della giustizia».

Lo equipariamo a Pasolini non solo per aver avuto il coraggio di esporre in pubblica piazza i problemi del caso, ma perché anche lui, implicitamente, fa capire l’importanza del ruolo dell’intellettuale.

«La verità la dirò io poiché ho promesso di dirla, se la giustizia non l’avesse stabilita, piena ed intera. È mio dovere parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero ossessionate dallo spirito di un uomo innocente che espia, lontano, nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi, signor Presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia ribellione di uomo onesto.

[…] Dichiaro semplicemente che il Comandante du Paty de Clam, incaricato di istruire la causa Dreyfus come ufficiale giudiziario, è in termini di date e responsabilità il principale colpevole dello spaventoso errore giudiziario che è stato commesso. […] Formulando queste accuse, non ignoro che sono soggetto agli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce i reati di diffamazione. Appunto per questo mi espongo.

Quanto alle persone che accuso, io non le conosco, non le ho mai viste, non provo verso di loro né rancore né odio. Esse non sono per me che delle entità, degli spiriti di malvagità sociale. E l’atto che qui compio non è che un modo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità, che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia ardente protesta non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque chiamarmi in Corte d’assise e che le indagini si svolgano alla luce del sole!

Attendo.»

La sua lettera prende il nome di J’Accuse…!.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia.

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