Non ci sono fatti, solo interpretazioni: Kant alle prese con la massima nietzschiana

Non ci sono fatti, solo interpretazioni: Kant alle prese con la massima nietzschiana

Il filosofo Immanuel Kant, nel ‘700, si pose la domanda riguardo cosa noi potessimo realmente conoscere della realtà in maniera rigorosa. Ciò sembrerebbe porsi in antitesi con il pluricitato: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni» attribuito ad un altro grande della filosofia occidentale: Nietzsche. Oltre alle più plausibili e accreditate letture degli studiosi del filosofo tedesco, i quali si soffermano sul connotato relativista della frase, è possibile abbracciare prospettiva che si ponga come superamento dell’ottica nietzschiana tout court, pur ammettendo il “condizionamento formale” tramite cui si estrinseca l’atto interpretativo, in riferimento ai fenomeni di conoscenza.

È vero, l’esperienza fornisce dei fenomeni che, come tali, sono interpretabili e non delle essenze (ousia in greco o noumeno per Kant). Ma ciò, invece che rappresentare un vincolo e un freno alle prerogative della Ragione di definire la realtà, proprio in virtù della sua veridicità, può aprire una prospettiva che dia finalmente un fondamento normativo alla nostra conoscenza dei fenomeni.

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Onde evitare fraintendimenti in questa spinosa questione, procediamo per gradi.
Noi possiamo pensare un qualcosa facendone esperienza secondo delle modalità preferenziali (che possiamo definire “categorie“), a cui non ci è dato sottrarci nel nostro rapporto con la realtà. Conseguenza logica sarebbe che l’obiettività assoluta è irraggiungibile per l’oggetto in questione. Non resterebbe altro che enunciare un corollario di impressioni e predicati intorno a quello che è un polo di identità immutabile ( la “cosa in sé“). In verità, ci deve far riflette sui risvolti necessari che ha un’implicazione del genere.

1) Tutte le forme possibili con cui l’Intelletto pensa e quindi “interpreta”, sono le categorie del pensiero umano.

2) Quando la mente interpreta i fenomeni dell’esperienza, quell’atto non può essere assimilato ad una forma di distorcimento operata dal singolo. La realtà fenomenica di un qualsiasi oggetto di esperienza deve costituirsi, in primis, secondo il nostro modo di pensare e, quindi, secondo le nostre categorie. In questo senso, l’interpretazione riferirebbe quella condizione preliminare a cui deve necessariamente sottostare un fenomeno per essere esperito: avviene un legittimo spostamento del fulcro della nostra analisi da quelle che sono le “leges entis” alle “leges mentis“, come condizioni formali a priori, come direbbe Kant nella Critica della Ragion Pura.

Sebbene tale ragionamento possa sembrare un ribaltamento sofistico, possiamo avere dimostrazione di quanto detto nel fatto che nel nostro far esperienza di un oggetto, troviamo in esso proprio quei nessi categoriali, quali sostanza, causa ecc. che rispondono al nostro modo di “interpretare”. Si potrebbe obiettare che tutto ciò, ancora una volta, attiene ad un condizionamento puramente formale, estrinseco e quindi privo di un qualsiasi valido fondamento logico. Tuttavia, per quanto vogliamo convincerci che le categorie, e in generale gli atti interpretativi, siano operazioni mentali fittizie, in realtà, possiamo essere sconfessati dal fatto che tali vincoli del pensiero siano già presenti in natura come condizioni formali del costituirsi degli oggetti, a tal punto da essere alla base delle più comuni teorie fisiche dei fenomeni. Ad esempio, Spazio e Tempo sono forme pure a priori del pensiero, Kant ci ricorda, ma allo stesso tempo “dati di fatto” concernenti la realtà degli oggetti. Ogni oggetto o fenomeno fisico è collocato all’interno dell’orizzonte spazio-temporale, non già perché noi non possiamo fare a meno di pensare un oggetto inserito nello spazio o nel tempo, ma perché non è proprio ammissibile che un qualsiasi ente possa esistere al di fuori dello spazio o del tempo. Ecco, quindi, una prima dimostrazione di come necessità e dati di fatto coincidano.

Potremmo fare altri casi a dimostrazione di quanto detto, in cui ravvisare analogamente tale coincidenza: sappiamo che le verità matematiche o degli oggetti geometrici trovino fondamento in leggi e postulati assiomatici che sono assolutamente fuori dall’esperienza; eppure, le forme geometriche come cerchio, quadrato, rombo sono ravvisabili nella realtà, senza che da parte nostra ci sia stato un preventivo condizionamento. Ciò ci porta a  considerare che è proprio la realtà a mostrarsi conforme a queste “verità intellegibili“. Il fatto di aver compreso la rappresentazione “piatto” sotto quella del “cerchio” – in quanto la prima, sensibile, è omogenea alla seconda, che è invece intuibile – testimonia l’applicazione dello schematismo trascendentale. A questo punto sorge il quesito: discutendo a proposito dei fenomeni di conoscenza nei termini di mera teoria, ovvero rappresentazione, è ciò sufficiente a reperire un principio necessario validante per gli oggetti che l’Intelletto unifica nell’esperienza? Per assurdo, se così non fosse, allora dovremmo revocare in dubbio persino l’utilizzo delle categorie. Ma non si può smentire che il piatto sia tondo, d’altra parte, come Kant stesso afferma «non si può affermare che qualcosa esista solo in virtù della sua assenza di contraddizione».

Pertanto, si apre il problema della deduzione delle categorie. Possiamo alla fine concludere la necessità/legittimità di applicazione delle categorie, così come Kant ribadisce. “Interpretare” i dati della nostra esperienza in relazione al loro grado fenomenico, trova una definitiva legittimità nel fatto che «l’oggetto si costituisce già in origine secondo le categorie» e non solo che, una volta costituito, l’intelletto può pensarlo secondo le categorie. Tramite l’interpretazione, ci vengono concessi gli “strumenti a priori” per pensare i fenomeni fisici e, in ultima istanza, persino realizzare una fondazione metafisica della fisica. 

Fonte immagine: Pixabay

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A proposito di Diana Natalie Nicole

Studentessa di Letterature Comparate, sostengo la continuità tra filosofia e letteratura, con qualche benigna interferenza di linguistica, arte e cultura.

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