Eugenio Montale (1896-1981) è stato uno dei più grandi poeti italiani del XX secolo. La sua poetica del negativo, in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione del linguaggio lirico tradizionale, si unisce a una poetica dell’oggetto, in cui immagini concrete diventano emblemi di una condizione esistenziale. Nominato senatore a vita nel 1967, ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1975. Analizziamo cinque delle sue poesie più rappresentative.
In questo approfondimento:
Le 5 poesie in sintesi: un percorso tematico
Poesia | Concetto montaliano chiave |
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Spesso il male di vivere ho incontrato | Il correlativo oggettivo e la divina Indifferenza. |
Meriggiare pallido e assorto | Il “male di vivere” come prigionia esistenziale. |
Forse un mattino andando in un’aria di vetro | La rivelazione del nulla e il “varco” metafisico. |
Non chiederci la parola | La poetica del negativo: dire “ciò che non siamo”. |
Ho sceso, dandoti il braccio | La memoria e la figura femminile come guida salvifica. |
Testo e analisi delle poesie più belle
1. Spesso il male di vivere ho incontrato
(da Ossi di seppia, 1925)
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Analisi: questa poesia è il manifesto del “male di vivere” e dell’uso del correlativo oggettivo. Il dolore esistenziale non è descritto in termini astratti, ma incarnato in oggetti e immagini concrete: un ruscello bloccato, una foglia secca, un cavallo caduto. L’unica forma di “bene” non è la felicità, ma la “divina Indifferenza”, un distacco quasi miracoloso dal dolore, rappresentato da immagini impassibili e remote come la statua, la nuvola e il falco.
2. Meriggiare pallido e assorto
(da Ossi di seppia, 1925)
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Analisi: il paesaggio arido e assolato della Liguria diventa il simbolo di una condizione esistenziale di prigionia. Il “rovente muro d’orto” e i suoni aspri della natura creano un’atmosfera di immobilità e oppressione. La poesia culmina nell’immagine potentissima della “muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, che rappresenta l’impossibilità per l’uomo di evadere dalla sofferenza e di trovare un significato, un “varco” verso la salvezza.
3. Forse un mattino andando in un’aria di vetro
(da Ossi di seppia, 1925)
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Analisi: qui Montale esprime la possibilità di un “miracolo” negativo: la rivelazione improvvisa che dietro la realtà fenomenica si nasconde il “nulla”, il “vuoto”. Questa epifania, vissuta con “terrore di ubriaco”, è un segreto che isola il poeta dagli “uomini che non si voltano”, ovvero coloro che vivono immersi nell'”inganno consueto” senza porsi domande. La poesia rappresenta la consapevolezza della mancanza di un fondamento ultimo dell’esistenza.
4. Non chiederci la parola
(da Ossi di seppia, 1925)
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Analisi: questo è il manifesto della poetica del negativo di Montale. Il poeta moderno non può più offrire certezze o formule definitive (“la parola che squadri”, “la formula che mondi possa aprirti”). Di fronte alla crisi dei valori, l’unica onestà intellettuale possibile è una testimonianza negativa: il poeta può solo dire, con le sue “storte sillabe”, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. È il rifiuto del ruolo di “poeta-vate” e l’accettazione di una poesia che testimonia la disarmonia del mondo.
5. Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
(da Xenia II, 1966)
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Analisi: scritta in memoria della moglie Drusilla Tanzi (“Mosca”), questa lirica è un commovente omaggio alla figura femminile come guida. Il “milione di scale” rappresenta il lungo percorso della vita insieme. Ora che la moglie non c’è più, il poeta si sente smarrito nel “vuoto”. L’incredibile capovolgimento finale rivela che era lei, pur quasi cieca, a possedere la vera vista, la capacità di vedere oltre l’apparenza (“la realtà che si vede”). La donna è la vera guida che permette al poeta di orientarsi nel mondo.
Fonte immagine: Pixabay
Articolo aggiornato il: 27/08/2025