Resistenza palestinese: la voce di Fadwa Tuqan

resistenza palestinese

La Palestina merita che qualcuno l’ascolti, la racconti e condiva la sua vera essenza, e sembra aver trovato la sua voce nella penna di una grandissima poetessa palestinese: Fadwa Tuqan.

Sarò felice di morire

nel mio paese,

di essere sepolta e sciolta

sotto la mia terra.

Un giorno risorgerò sotto forma di un’erba

o di un fiore che verrà gentilmente carezzato

dalle manine di un bimbo del mio paese.

Sarò felice e soddisfatta di rimanere,

non importa se sotto forma di un’erba

o di un fiore,

nel grembo benigno del mio paese!


Fadwa TuqanNata il 1° marzo 1917 circa e morta il 12 dicembre 2003 a Nablus, in Cisgiordania, Fadwa Tuqan ha trascorso una vita per niente semplice: nacque in una famiglia borghese, settimana di dieci figli, e a causa di restrizioni familiari, per molto tempo, non ebbe la possibilità di andare a scuola. Fadwa era solo una bambina quando pensò di suicidarsi, perché stanca di essere rinchiusa fra le quattro mura di casa. «Non c’era altra soluzione che il suicidio per ricoverare la libertà individuale che mi era stata rubata. Era il solo modo di esprimere la mia ribellione contro la mia famiglia, il solo modo di vendicarmi della loro ingiustizia nei miei confronti», scrive Fadwa Tuqan nella sua autobiografia.

Fu il fratello maggiore Ibrahim – anche lui un noto poeta palestinese – a permetterle di studiare, ad invogliarla a trasferirsi con lui a Gerusalemme e a insegnarle l’arte della poesia. «Qualcosa si infranse in fondo al mio cuore, la sofferenza mi invase, ero orfana», scrive la poetessa alla morte di Ibrāhīm, che per lei non era solo un fratello, era molto di più: era tutta la sua famiglia. A Gerusalemme Fadwa Tuqan rinasce: si lascia indietro vecchi dolori e inizia a pubblicare i suoi lavori su riviste letterarie egiziane e libanesi, inizialmente con l’uso di pseudonimi.

Vita privata e vita politica: la resistenza palestinese

La morte del caro fratello e la Nakba del 1948 – l’esodo che costrinse 700.000 palestinesi a lasciare la propria terra durante la guerra arabo-israeliana del 1948, scoppiata dopo la fondazione dello Stato di Israele – portarono Fadwa ad avvicinarsi molto alla vita politica. Questo le permise di viaggiare e di prendere parte a varie delegazioni palestinesi e giordane, a Stoccolma, in Olanda e in Inghilterra (qui studiò lingua e letteratura inglese).

Ma mi dica, di dov’è signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
Scusami, della Giordania dici?

Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore! Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!

 

Ben presto Fadwa torna nel paese natio. Il rancore nei confronti della propria famiglia non si placa, anzi, la porta a prendere una casa tutta sua in un’altra parte della città di Nablus – di lì a poco trafitta dall’occupazione israeliana. Da qui inizia il cambiamento della sua poesia: da personale, femminile ed intima, diventa la poesia della resistenza palestinese, sviluppando tematiche come la morte, la guerra, la repressione sociale, la libertà, il nazionalismo.

Poetessa della Palestina, Madre della poesia palestinese: questi sono gli appellativi che le sono stati assegnati. Attraverso le sue parole, Fadwa Tuqan è riuscita a rappresentare la rabbia e il dolore del suo popolo, il suo desiderio di tornare presto libero dalla persecuzione e dalle cattiverie israeliane. La sua poesia riesce a far sentire la voce di migliaia di palestinesi che vengono continuamente ignorati, non ascoltati, non supportati. È la voce di una Palestina dolorante, straziata, abbandonata dal resto del mondo, ma per la quale i suoi cittadini continueranno a combattere, fino alla morte.

Continuerò a scrivere il suo nome in combattimento:
Sulla terra, sulle mura, sulle porte,
contro le violazioni delle case;
nella moschea e l’altare della Vergine

su tutte le strade delle fattorie.
Su tutte le colline, su tutti i pendii,
le strade, gli angoli.
Nella prigione e nella prigione delle torture. 
Sul legno della forca.

Adrò avanti, nonostante le catene,
nonostante le case in frantumi,
nonostante i grandi falò,
scrivendo il suo nome. Per vedere

come si diffonde nella nostra patria che cresce,
e continua a crescere,
senza fermarsi, fino a coprire
a poco a poco la sua terra umida.
Fino a quando non vedremo come una libertà rossa apre tutte le porte

mentre la notte fugge,
e la luce schiaccia i faschi di nebbia.

 

Immagini: Pixabay.it, Worldliteraturetoday.org

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23 anni passati con la testa fra le nuvole, di cui 3 come studentessa di Mediazione linguistica e culturale, e se ne prospettano altri facendo le cose che più amo: scrivere, fotografare, viaggiare, sognare.

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