Avevo quindici anni la prima volta che qualcuno mi fece sentire in difetto per il mio corpo. Ricordo ancora quel pomeriggio d’estate, sedute sul bordo del marciapiede sotto casa, quando la mia amica, più grande di me di un paio d’anni e “avanti” in tutto, mi guardò le gambe e disse: “Ma hai un sacco di peli! Aspetta, prendo la lametta di mia madre.” Non capivo bene cosa stesse succedendo, ma ricordo chiaramente quella sensazione di vergogna, come se qualcosa che avevo addosso senza averlo scelto fosse sbagliato. Mi lasciò le gambe rosse, graffiate, ma lisce. Più “femminili”, mi disse. Lei, che aveva già sentito parlare da sua madre di cerette, gambe lisce e sensualità, mi fece sentire improvvisamente più grande, come se quel gesto, quel piccolo rito iniziatico, mi avesse svelato un codice segreto per appartenere finalmente al mondo delle donne. A quindici anni sapevo già tutto. Dovevo controllare il mio corpo, soprattutto i peli. Gambe, ascelle, inguine, anche le braccia se possibile. Il corpo femminile, mi era ormai chiaro, doveva essere levigato, ordinato, silenzioso, mai troppo peloso, troppo forte, troppo fuori dagli schemi.
La gestione dei peli è uno dei primi insegnamenti non detti che riceviamo come bambine. Insegnamenti che raramente vengono messi in discussione perché passano sotto la superficie della consapevolezza, come regole implicite di un copione già scritto. Un copione che spesso ci viene trasmesso da madre in figlia, da nonna a nipote, da amica ad amica. Nessuna cattiveria, nessuna imposizione palese: solo l’eco di generazioni cresciute nell’idea che i peli siano “roba da uomini”. Perché, sì: i peli sono ancora considerati un appannaggio maschile. Sulle gambe di un uomo sono simbolo di virilità, sulle ascelle un segno di forza e naturalezza. Sulle donne, invece, diventano immediatamente sporcizia, incuria, bruttezza. I peli su una donna evocano l’immagine di una che “si è lasciata andare”, o peggio, che “vuole fare l’uomo”. E qui torna in scena il famigerato doppio standard: ciò che viene esaltato negli uomini, viene condannato nelle donne.
Negli ultimi anni, sempre più donne hanno scelto di non depilarsi, non per disinteresse o trascuratezza, ma come atto consapevole di resistenza. Per alcune è una scelta estetica, per altre politica: un rifiuto di un modello di bellezza omologato, spesso imposto dallo sguardo maschile e da una cultura patriarcale che ha trasformato il corpo femminile in un campo di battaglia da controllare centimetro per centimetro. Eppure, quando una donna si mostra con i peli in vista sulle gambe, sulle ascelle, sul viso, le reazioni sono spesso violente, sprezzanti. “Scimmia”, “maschiaccio”, “femminista arrabbiata”, “fa schifo”. Ogni giudizio è un tentativo di rimetterla al suo posto, di riportarla dentro gli argini di un femminile domato, confezionato, accettabile. Perché ancora oggi basta poco per scatenare l’orda del giudizio: una donna che esce dai ranghi, che mostra un corpo non conforme, che si sottrae al dovere della bellezza, viene colpita. Moralmente, socialmente, mediaticamente.
Il controllo del corpo femminile è da sempre uno degli strumenti più efficaci del potere patriarcale. Passa attraverso le immagini pubblicitarie, i media, i consigli delle riviste, le chiacchiere tra adolescenti, le parole delle madri e delle nonne, fino a infiltrarsi nelle nostre scelte più intime. Depilarsi non è un crimine, ovviamente, ma il fatto che non farlo venga ancora visto come una provocazione, come una trasgressione, ci dice qualcosa di molto profondo: non siamo ancora libere davvero.
Essere libere significa poter scegliere se depilarsi o no, senza che quella scelta diventi un manifesto o un’arma a doppio taglio. Significa poter abitare il proprio corpo senza il bisogno costante di renderlo accettabile agli occhi degli altri. E forse è proprio da qui, da questi minuscoli, apparentemente insignificanti dettagli come, i peli, che può cominciare una rivoluzione fatta di corpi veri, diversi, imperfetti e finalmente nostri.
(Di Yuleisy Cruz Lezcano)