Tito, il sisma dell’Ottanta – Intervista a Rocco Pagano

Tito

A parlarci del terremoto dell’Ottanta che colpì Irpinia e Basilicata oggi sarà Rocco Pagano, cittadino lucano di Tito (PZ).

Il vasto territorio più duramente colpito dal sisma dell’Ottanta fu suddiviso in cinque unità: 1) l’alta valle dell’Ofanto con l’estremo lembo dell’alta Irpinia, 2) la zona montana e pedemontana del Terminio, 3) l’alta valle del Calore, 4) l’alta e media valle del Sele e della connessa media valle del Tanagro, 5) la Montagna di Potenza.
L’onda sismica si diffuse nel territorio in modo capriccioso, a pelle di leopardo. Così, accanto ad aree duramente colpite, ce ne furono altre quasi intatte e i danni si distribuirono molto diversamente sia nel territorio che all’interno dei singoli centri abitati. Qui i crolli più estesi e più gravi furono quelli verificatisi, da un lato, nei quartieri composti da piccole case costruite in un lontano passato e, dall’altro, a danno degli edifici a più piani mal costruiti di recente. Nei paesi distrutti, all’inverso, avevano resistito in qualche modo le costruzioni a un piano più recenti e costruite a cura propria dai possessori e residenti. Perciò, anche nei centri maggiormente danneggiati prevalsero le situazioni miste, in cui s’intrecciavano vecchio e nuovo, rovine e stabilità.

I comuni colpiti furono divisi in tre gruppi: distrutti, gravemente danneggiati o lievemente danneggiati.
I danni ai fabbricati rurali risultavano minori rispetto a quanto ci si sarebbe potuto aspettare.
In merito allo stato del territorio dopo il terremoto, drammatiche distruzioni furono accompagnate da frane.
Dell’apparato produttivo del territorio è stata colpita, innanzitutto, l’agricoltura. Fortunatamente il sisma colse le campagne in un periodo di relativo riposo, a semine dovunque già ultimate.
I danni al capitale fondiario e al capitale di esercizio furono di cospicue dimensioni.
Più grave, comunque, fu la situazione per le attività extra agricole, in quanto i rari stabilimenti industriali andarono distrutti con l’annientamento dei centri abitati e lo stesso si dica per le attività artigiane, che persero – spesso insieme alle botteghe – attrezzi e materiali. Tuttavia, il peso di queste attività era marginale.

In riferimento alla situazione sociale conseguente al sisma si è tenuto conto dello stato dei superstiti senza-tetto; essa si collega alla massiccia e talvolta disuguale distribuzione degli aiuti.

Il sisma dell’Ottanta, il caso di Tito

Intervista a ROCCO PAGANO; (51 anni – operaio) a. 2015

(Si sono lasciati il più possibile invariati i modi di esprimersi e il “linguaggio” parlato usato dagli intervistati)

Cosa serba la sua memoria del drammatico 23 novembre 1980?

Nel 1980 avevo diciassette anni e frequentavo l’IPIAS a Potenza. Mi divertivo con gli amici e non avevo idea di cosa fosse il terremoto fino al 23 novembre. Quella sera passeggiavo con amici e amiche per il corso del paese, quando ci fu la scossa. Tutti correvano e correvo pure io, senza capire cosa stesse succedendo.
Ricordo che per raggiungere casa percorsi la parte vecchia del paese; per terra c’erano solo calcinacci.
A casa non trovai nessuno, erano tutti raggruppati in una piazzetta, sia i miei genitori che gli anziani del posto. Piangevano e dicevano che una cosa del genere non si era mai verificata. Fu ascoltando le persone più grandi e prendendo coscienza del fatto che casa era inagibile che cominciai a capire cosa fosse il terremoto.
Da quel momento la notte si dormiva in auto – per chi ce l’aveva – oppure su sdraio, sedie, tutti vicino a grandi falò. Grazie alle belle giornate di sole che succedettero, le persone poterono approfittarne per prendere viveri dalle case, perché si aveva paura di entrarci quando faceva buio.
La scuola rimase chiusa fin dopo le feste di Natale e una cosa che mi è rimasta particolarmente impressa è stata che il mattino dopo il sisma, dalla piazzetta non si vedeva più il campanile della Chiesa Madre e le persone piansero.
Dopo qualche settimana arrivarono i militari, che cominciarono a togliere i calcinacci e a montare tende e campi di roulotte, così il paese cominciò a riprendersi, ma le scosse di assestamento continuarono a incutere timore.

Ponendo la suddetta data come spartiacque tra il “prima” e il “dopo”, secondo lei cosa è cambiato a Tito?

Prima, nel territorio di Tito, c’era una piccola area industriale con qualche fabbrica e rispetto ai paesi limitrofi non si stava male, per chi aveva come me un genitore occupato nell’industria, anche se in CIG (Cassa Integrazione Guadagni), ex Liquichimica, Memofil e Metalmeccanica. La maggior parte della gente viveva di artigianato locale e agricoltura, c’era qualche impresa di costruzione, ma i palazzi erano pochi. Dopo il terremoto arrivarono aiuti di ogni genere (alimentari e vestiario) e si fece largo tra noi la malignità, pur di salvaguardare gli interessi personali. I miei ricordi sono quelli di un ragazzo di diciassette anni che, quando andava in piazza e percorreva buona parte del paese, percepiva la socievolezza e la cordialità delle persone, non esisteva la cattiveria che ha contraddistinto la ricostruzione.
Quando sono arrivati i primi fondi, Tito è cambiato in peggio sia economicamente che socialmente, secondo il mio punto di vista. Sono nate come funghi imprese edili locali e forestiere… “chi più buttava case a terra”, per poi ricostruirle. Ma sempre legalmente.

Attualmente, come le sembra la situazione a Tito a trentacinque anni dal terremoto, sia dal punto di vista dell’aspetto urbanistico della città, sia da quello di una ricostruzione sociale?

Tito ha giovato della ricostruzione – come tutti i paesi – e la vita è cambiata in meglio dal punto di vista economico. Ne abbiamo guadagnato tutti, chi in un modo chi in un altro. C’è chi ha lavorato, chi si è visto costruire una casa nuova, chi ha trovato lavoro nella nuova zona industriale, chi ha creato nuove attività.

Nello specifico, rispetto al 1980, oggi quali sono le condizioni del centro storico della città, la zona più colpita dal sisma?

A Tito la quotidianità si svolgeva in piazza, al Calvario e nella Chiesa Madre. Dopo il terremoto, non si è pensato a ricostruire prima e bene il centro storico per farlo rivivere tradizionalmente, ma si sono costruiti nuovi rioni con vari palazzi e piazzette. Le persone hanno comprato nuove case e cambiato stile di vita, lasciando il centro storico ancora in costruzione e quasi isolato.
Prima si camminava di più a piedi perché il paese era più piccolo. Oggi si ha bisogno dell’auto per arrivare in centro dai nuovi rioni e il centro storico è scomodo, perché non ha abbastanza parcheggi e non è accessibile in tutte le sue parti.

La ricostruzione della Chiesa Madre sembra essere una grande delusione per la comunità titese. Perchè e cosa si poteva fare di più?

La ricostruzione della Chiesa Madre non mi piace, non perché è costruita in uno stile moderno, ma perché non c’è più la chiesa dei ricordi di un ragazzo dell’epoca.

Si ringrazia Rocco Pagano per la gentile partecipazione!

A proposito di Chiara D'Auria

Nata e cresciuta in Basilicata, si laurea in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Scrive per abbattere barriere e scoperchiare un universo sottopelle abitato da anime e microcosmi contrastanti: dal borgo lucano scavato nella roccia di una montagna avvolta nel silenzio alle viuzze partenopee strette e caotiche, dove s'intravede il mare. Scrive per respirare a pieni polmoni.

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