Toy like me è l’hashtag lanciato da tre mamme inglesi su Twitter nel 2015 e il nome di un gruppo Facebook che ha dato inizio ad una campagna virale di solidarietà e umanità, che coinvolge più di 20mila persone aderenti fra famiglie e volontari: Rebecca Atkinson, giornalista sorda e ipovedente, rimpiange la sua infanzia senza una “bambola come me”; Melissa Mostyn, anche lei giornalista, ha una figlia sulla carrozzina e Karen Newell, esperta consulente in giocattoli è mamma di un bimbo cieco.
È diretto e semplice il messaggio: un giocattolo come me. Tempo fa, sul web già un’altra mamma originaria della Tasmania, Sonia Sigh, aveva attirato l’attenzione dei produttori di giocattoli con il proprio progetto, Tree Change Dolls: la Sigh aveva completamente struccato le bambole Bratz, dando loro nuovi lineamenti e vestendole in modo più simile a quello delle bambine che ci giocano. Così che le bambine avessero un giocattolo, una bambola “come me”, nella quale poter vedere se stesse.
E allora anche le bambine con menomazioni e evidenti difetti fisici avevano bisogno di ritrovare nella semplicità dei loro tradizionali giochi, come le bambole, se stesse, con tutte le loro umane imperfezioni. Chissà se queste mamme hanno pensato proprio al progetto di Sonia per realizzare bambole che dovessero avere caratteristiche fisiche simili a quelle delle loro bambine, uniche, non perfette. Inizialmente creata artigianalmente da loro, la bambola di Trilly, fatina di Peter Pan, che indossa un apparecchio acustico, ha fatto il giro del web, raggiungendo 50mila sostenitori, e le tre mamme hanno pensato di invitare, nel gruppo social Toy like me, i genitori di figli disabili a postare idee per giochi e giocattoli con varie disabilità fisiche. Le foto postate sono state numerose e commoventi: una mamma ha persino realizzato il peluche del cane-guida Eddie, che aveva accompagnato suo figlio Fred nella loro visita al centro di formazione Guidedogs. Melissa, Rebecca e Karen hanno chiesto anche alle aziende produttrici di giocattoli di realizzare questi progetti e di ispirarsi alle idee “casalinghe” dei genitori di bambini disabili, per portare sul mercato prodotti vicini ai loro figli.
Toy like me e MakieLab
L’attenzione dei media è stata così immediata che l’azienda britannica produttrice di giocattoli e di bambole personalizzabili, MakieLab, ha colto la sfida e ha lanciato sul mercato tre bambole ispirate alle mamme autrici della campagna Toy like me, realizzate con una stampante in 3D (il cui uso consente di rispondere quasi istantaneamente alle richieste che arrivano numerose): Eva con un bastone da passeggio, Melissa con una voglia rosa sul volto e Hetty che con la mano dice “ti amo” nella lingua dei segni.
MakieLab, che ha realizzato personaggi dei cartoni animati tanto amati dai più piccoli come una principessa cieca e con un cane guida, ha proposto ai papà e alle mamme di segnalare apparecchi di supporto o particolari difetti fisici dei figli, così da realizzare in modo assolutamente fedele alla realtà giocattoli simili ai bambini (Toy like me) con una qualsiasi disabilità (il costo di un gioco personalizzato si aggira intorno alle 69 sterline). Ci sono bambole con occhiali (si calcola che la loro produzione sia del 25%), con protesi alle gambe, con copricapo protettivo contro gli attacchi epilettici, con labbro leporino (realizzate da CLAPA Charity), in sedia a rotelle, con bende sugli occhi o non udenti, senza braccia, alimentate da un sondino…
Toy like me: un messaggio di solidarietà e di inclusività
Non solo bambole, infatti. Anche i piccoli bambini disabili hanno la possibilità di rivedere se stessi e relazionarsi in modo più semplice con i propri giochi: ci sono pirati ciechi e cowboy sulla sedia a rotelle Playmobil, peluche di SpongeBob con il respiratore artificiale, pupazzi anche Lego senza gambe, la criniera staccabile (per i bambini sottoposti a chemioterapie), con l’apparecchio acustico o con microzia, orsacchiotti con occhiali dalle lenti molto doppie o tubicini nelle pance…
Toy like me offre un insegnamento importante: tutti i bambini, con disabilità o meno, giocando, devono imparare a non inseguire canoni di bellezza innaturali (con i quali comunque dovranno confrontarsi da grandi) e a non conformarsi agli standard sociali altrui. In entrambi i casi ciò significherebbe solo negare se stessi.
Eleonora Vitale