Tuvalu affonda: cosa resta di una nazione che scompare?

Situata in mezzo all’Oceano Pacifico, Tuvalu è un puntino quasi invisibile a guardarla sulle mappe. Nonostante ciò, oggi è al centro di una delle crisi più simboliche dei tempi recenti. A causa dell’innalzamento del livello del mare, infatti, questo piccolo arcipelago rischia di diventare la prima nazione al mondo a scomparire fisicamente. L’emergenza è più che mai concreta. Il vero dramma, però, va oltre l’aspetto ambientale: Tuvalu cambiamento climatico è anche e soprattutto una questione di identità, sovranità e memoria collettiva; di tradizioni comuni, di spirito nazionale. La domanda allora sorge spontanea: cosa resta di un Paese, quando del suo territorio non esiste più nulla?

Il primo Paese destinato a scomparire?

Tuvalu è uno Stato composto da nove atolli e barriere coralline che non superano i due metri di altitudine media. Popolazione totale: circa 11.000 persone. Non ci sono montagne, né rifugi. Per via dell’innalzamento del livello del mare, entro i prossimi decenni intere aree saranno inabitabili: già oggi l’erosione costiera, la salinizzazione delle falde e le inondazioni mettono in pericolo le infrastrutture, le coltivazioni, l’acqua potabile: la linfa vitale di un’intera nazione. Non sono ipotesi future: tutto ciò accade nel presente, giorno dopo giorno.

Come ha scritto l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change – Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) nel suo Sesto Rapporto di Valutazione, “alcune piccole isole del Pacifico potrebbero diventare inabitabili entro la fine del secolo, anche in presenza di strategie di adattamento locale.” A differenza di altri disastri naturali, qui non si parla di emergenza temporanea, ma di estinzione geografica lenta e inesorabile. L’oceano non è più solo orizzonte, non è solo bellezza naturale, ma minaccia concreta: ogni anno l’acqua sale, la terra sprofonda e le coste si sgretolano. Ma il vero paradosso è questo: Tuvalu potrebbe scomparire fisicamente senza cessare di esistere come Stato. Cosa resta allora di un Paese, quando non resta più il suolo? Questa è la domanda che Tuvalu, con il suo silenzioso affondare, sta ponendo al mondo intero.

Tuvalu
Le isole di Tuvalu cerchiate in verde sulla mappa – Fonte immagine: Wikipedia – Sanjay Rao

Cosa significa “perdere un Paese”?

Nel diritto internazionale, uno Stato è definito da tre elementi: un territorio, un popolo, un governo sovrano. Ma cosa accade se il territorio scompare? Un’ipotesi che a primo impatto potrebbe suonare assurda e provocare persino un sorriso. La realtà dei fatti, però, è tutt’altro che divertente. Se una nazione affonda fisicamente, può ancora esistere legalmente? Una nazione senza terra, ma con un popolo, una lingua, una cultura, un governo. A questa domanda, che a tratti sembra uscita dalla fantascienza, Tuvalu risponde in anticipo sul futuro.

Il governo ha lanciato il progetto della “Digital Nation”: una copia virtuale del Paese da ricreare nel metaverso. I palazzi, i simboli nazionali, le mappe, ma anche la cultura orale e i luoghi sacri saranno trasferiti in uno spazio digitale, dove Tuvalu continuerà a esistere anche se fisicamente non più abitabile. Il progetto ha anche ricevuto premi internazionali, come il Titanium Grand Prix ai Cannes Lions e il Gerety Award, per l’innovazione del suo approccio.

Nel 2021, alla COP26, il ministro Simon Kofe ha pronunciato il suo discorso in piedi nell’acqua, con il podio sistemato tra le onde: “Tuvalu potrebbe diventare la prima nazione completamente digitale, ma continueremo a combattere per la nostra terra, la nostra gente e la nostra identità.” Di seguito il video del ministro Simon Kofe pubblicato dal Guardian:

Dietro questa scelta c’è una resistenza simbolica fortissima: non voler sparire. Non rinunciare a un nome, a una bandiera, a una cittadinanza. Ma può una nazione esistere senza un luogo? In quel paradosso si gioca il futuro non solo di Tuvalu, ma di tutti i popoli che rischiano di perdere la propria casa per cause non belliche, ma climatiche.

Storie e voci da Tuvalu

Dietro i discorsi ufficiali dei leader politici, ci sono le vite reali di chi ogni giorno abita l’incertezza. Le ha raccolte Reuters, in un’inchiesta esclusiva condotta lo scorso anno nell’arcipelago. Giovani, agricoltori, insegnanti, tecnici: tutti si muovono sul filo tra l’amore per la propria terra e la paura di vederla scomparire. Grace Malie, 25 anni, è vice-presidente del Tuvalu National Youth Council. Quando ha incontrato il presidente della Banca Mondiale, le sue parole sono state semplici e radicali: “Amo il mio Paese. Amo la mia casa. Amo fare ciò che faccio ogni giorno qui a Tuvalu. E voglio restare.”

Ma non tutti sono così sicuri di poterlo fare. Maani Maani, operatore IT di Funafuti, racconta: “La nostra terra si assottiglia. I raccolti non crescono più bene. Penso che Dio, stavolta, non ci salverà.” E poi aggiunge, con amarezza e lucidità: “Lasciare un Paese significa lasciare la cultura con cui sei nato. E la cultura è tutto – la famiglia, tua sorella, tuo fratello. È tutto.”

Sono parole che non prevedono alcun tipo di retorica. Non c’è eroismo né vittimismo. C’è solo la realtà di un popolo che sta cercando di rimanere intero mentre il mondo attorno si disfa.

Proteste a Tuvalu – Fonte immagine: Wikipedia – Lauri Myllyvirta

Migrazioni culturali: dove vanno gli abitanti di Tuvalu?

Già oggi, molti tuvaluani stanno lasciando le isole, diretti principalmente verso Nuova Zelanda, Australia e Fiji. Ma emigrare non è ovviamente solo una questione di visti e lavoro: è un atto che scardina non solo la geografia, ma anche l’identità collettiva. Lasciare Tuvalu significa perdere un mondo interiore: la lingua, le danze rituali, le genealogie familiari tramandate oralmente, i luoghi sacri legati all’oceano e agli antenati. Non si tratta semplicemente di diventare cittadini di un altro Stato, ma di essere esuli da una terra che potrebbe non esistere più neanche come ricordo fisico. Una terra che potrebbe diventare solo un ricordo lontano, sfumato, fuori dal tempo e dallo spazio.

Il governo di Tuvalu ha già negoziato accordi bilaterali con Paesi vicini per garantire una migrazione ordinata nei prossimi decenni. Con l’Australia, il trattato Falepili Union garantirà l’accesso a 280 permessi di residenza all’anno, per consentire ai cittadini di trovarvi alloggio, scuola e lavoro. La Nuova Zelanda, invece, si è impegnata a ospitare quote crescenti di migranti climatici, ma senza riconoscere ancora formalmente lo status giuridico di “rifugiato climatico”, che in diritto internazionale non esiste.

La sfida vera non è chiaramente solo quella di offrire visti, ma di mantenere un senso di nazione. Se l’emigrazione decolla, però, Tuvalu rischia di perdere la sua identità collettiva, un fenomeno che sembra più lento solo perché silenzioso.

Fonte immagine: Wikipedia – Inaba Tomoaki

Cosa ci dice Tuvalu su di noi

Tuvalu è una nazione lontana, appena un frammento d’atollo disperso nell’immensità del Pacifico. Eppure ciò che accade lì ci riguarda profondamente. La sua lenta scomparsa non è solo una crisi locale, ma uno specchio globale: ci parla della caducità, del tempo geologico che si accorcia, delle promesse disattese di un Occidente che guarda ma non agisce. O se lo fa, lo fa in modo insufficiente e parziale. Mentre a Tuvalu il futuro ha già preso una piega drastica, altrove si continua a discutere, come se ci fosse ancora margine per rimandare.

Eppure Tuvalu non è sola. La sua sorte è condivisa da Kiribati, che ha già acquistato terre alle Fiji in previsione dell’evacuazione. Dalle Isole Marshall, devastate dai test nucleari americani e ora dall’innalzamento dei mari. Da Nauru, dove il collasso ecologico segue quello economico. Tutti luoghi che sembrano piccoli, ma sono frontiere avanzate del collasso climatico: lì il mondo sta già finendo, centimetro dopo centimetro. Luoghi che sembrano avanti nel tempo, testimonianze del futuro collettivo del mondo.

Tuvalu ci chiede di guardare oltre la logica dell’emergenza. Di capire che non esistono crisi “loro” e crisi “nostre”. Che non ci sarà un giorno in cui il mare inizierà a salire per noi: è già salito per qualcun altro, e questo dovrebbe bastare.

E infine ci ricorda una verità antica, difficile da sopportare: niente è garantito, neppure l’esistenza di una nazione. Ciò che oggi diamo per scontato, persino la terra sotto i piedi, il nome di un luogo, la certezza di appartenere a qualcosa, può dissolversi e scomparire per sempre. E forse è proprio in questo dissolvimento che Tuvalu diventa universale: un monito, un testimone, una storia che parla della fine del mondo come fine di una nazione, di un mondo in miniatura. Il nostro compito è decidere se ascoltare o lasciar affondare anche questa voce.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia – Gabriella Jacobi

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