Nel giorno di San Lorenzo del 1980 scese dal cielo di Roma una stella inattesa, quella di Paulo Roberto Falcao. Quell’estate, con le frontiere appena riaperte, i tifosi della Roma sognavano in grande: il presidente Viola cercò di accaparrarsi Zico, campione brasiliano considerato tra i migliori al mondo. Il Flamengo fece resistenza e non lasciò andare il Galinho, così i giallorossi scelsero Falcao.
Il brasiliano dai capelli ricci era meno conosciuto del connazionale, ma questo non impedì a 10.000 tifosi di riempire Fiumicino carichi di sogni e speranze. La prima scena della storia tra Falcao e la Roma vede l’ex giocatore dell’Internacional di Porto Alegre scendere e ricevere dei fiori giallorossi e un berretto di lana con gli stessi colori. Nonostante il caldo, Falcao accettò il berretto, mostrandosi da subito disponibile verso il suo nuovo popolo. Alla domanda di un giornalista sulla pronuncia del suo nome rispose con chiarezza: «Se il tifoso romanista mi chiama Falcao, va bene Falcao», dimostrando di volersi concentrare solo sul campo.
Come Falcao cambiò la storia della Roma
Falcao era profondamente diverso da Zico e dall’archetipo del tipico calciatore brasiliano dell’epoca. Lo stereotipo sui giocatori provenienti dal Brasilerão, considerati dei giocolieri, ingannò anche il presidente della Roma Dino Viola, che durante la presentazione invitò Falcao a fare dei numeri col pallone. Il Gaucho li eseguì, ma subito dopo fece capire di non essere una «foca ammaestrata» bensì un calciatore vero. Il neo acquisto della Roma proveniva dal sud del Brasile, una zona più fredda rispetto al nord e conosciuta per una rigorosa etica del lavoro. Ciò si traduce in un calcio più tattico, che ha forgiato Falcao, rendendolo un meraviglioso direttore d’orchestra, non solo un regista di centrocampo, ma un uomo capace di prevedere il gioco.
La Roma di quell’epoca veniva da stagioni negative, ma il centrocampista di Abelardo Luz aveva tutt’altre aspirazioni. Con la convinzione di chi guarda avanti, dichiarò alla stampa: «Voglio vincere lo scudetto». Il suo obiettivo era quello di portare la sua mentalità vincente e rendere grande una squadra che non vinceva il campionato dalla stagione 1941/1942.
Pochi conoscevano Falcao, ma nel giro di poche partite, una giocata geniale dopo l’altra, fece capire ai tifosi perché Liedholm si fidasse così tanto di lui. Il numero 5 diventò il Divino, destinato a cambiare la storia del club capitolino.
La Roma non vinse subito lo scudetto, ma già dalla prima stagione del brasiliano iniziò a spaventare la Juventus, vincendo la Coppa Italia e arrivando seconda nella stagione del famoso gol di Turone. In quegli anni, la Roma aveva in rosa grandi giocatori come il capitano Agostino Di Bartolomei, Bruno Conti e Roberto Pruzzo, ma solo l’arrivo di Falcao diede loro la forza per spodestare la Juventus. Lo scudetto arrivò nella stagione 1982/1983 e la Roma uscì finalmente dalla «prigionia del sogno» dopo 41 anni, grazie al Gaucho che rimboccandosi le maniche (come nell’iconica esultanza contro il Pisa) diventò l’ottavo re di Roma.
La finale persa con il Liverpool e il grave infortunio: il tramonto di un campione
Al termine della stagione dello scudetto, Falcao fu cercato dall’Inter, ma fece saltare la trattiva. Alcune ricostruzioni parlano di una chiamata del presidente Giulio Andreotti, intervenuto per bloccare il trasferimento, ma la versione ufficiale è quella fornita dal suo amico Pato Moura: «Quando si trattò di decidere, non ce la fece: l’amore per la Roma si rivelò più forte». Falcao rimase con l’obiettivo di vincere la Coppa dei Campioni.
Dopo un percorso trionfale, il 30 maggio 1984 la Roma perse la finale contro il Liverpool e Falcao salì sul banco degli imputati. Il numero 5 si era infortunato durante la finale e non figurò tra i rigoristi, causando l’ira dei romanisti, che si sentivano traditi dal loro simbolo.
La stagione successiva fu quella dell’ultima rete di Falcao in giallorosso, il 16 dicembre 1984. Dopo un gol contro il Napoli, mentre eseguiva il suo classico saltello per esultare, sentì una fitta al ginocchio. Quella reazione sancì di fatto la fine della sua esperienza con la Roma, dando il colpo di grazia a un ginocchio già ampiamente compromesso. Dopo un lungo infortunio, rescisse il contratto e tornò in patria vestendo la maglia del San Paolo.
Il rigore sbagliato in finale e le ultime vicende con la presidenza non sono mai riuscite a intaccare l’amore viscerale dei tifosi della Roma nei confronti del Divino, che li aveva portati a sfiorare il tetto d’Europa. Si tratta di una delle tante storie senza lieto fine della storia romanista, ma che ha lasciato il segno nell’immaginario collettivo e nel cuore di milioni di tifosi.
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