Fino al 1 dicembre è in scena al Teatro India di Roma Il cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno. In una messa in scena tutta al femminile, il testo di Calvino rivela la studiata complessità dell’apparentemente caotica trama.
«Tataratata. Tataratata».
Sempre lo stesso suono fa il gioco della guerra che tanto piace agli uomini. Da anni, sempre uguale, sempre lo stesso. Il suono della guerra vista dall’esterno, attraverso gli occhi delle donne che da quella esperienza sono escluse, ma che pure la combattono scrivendo e inseguendo la verità sulla pagina.
Il cavaliere inesistente di Capodanno
La guerra, l’amore e la fuga, le donne i cavalieri e le audaci imprese si confondono in un adattamento immaginifico e potentissimo de Il cavaliere inesistente di Calvino.
La messa in scena tradisce un’affiatata sinergia tra la regia di Tommaso Capodanno e l’adattamento di Matilde D’Accardi, incredibilmente inverata dalle quattro attrici che – con il solo ausilio di un campo di grano e papaveri rossi e di qualche copricapo – danno voce e musica alle parole di Calvino e ai tanti livelli di cui consta il suo testo.
Da monache contadine a cavalieri, da amanti a re, Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane instancabilmente recitano e cantano con un ritmo tanto vorticoso da trascinare la platea nel disordinato entrelacement di questa strana e calviniana chanson de geste, in cui tutto sfugge, non si arriva mai e non si capisce niente.
Il cavaliere inesistente: trama e temi
Terzo e ultimo racconto della trilogia “I nostri antenati”, Il cavaliere inesistente è forse quello che più di altri condensa i fondamentali del pensiero e della penna di Calvino, affidano alla voce di Bradamante l’allegoria di una crisi esistenziale che ha a che fare con la guerra e con i sentimenti e che da individuale si fa sociale e politica.
Ne Il cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno, le attrici uniscono sul palco i punti di una trama che si fa e si disfa continuamente, con irriverenza, precisione, talento, dissacrante ironia, riuscendo a essere – nello stesso tempo – voce e coro, io e noi.
Tutto qui è ribaltato, come in un carnevalesco mondo alla rovescia: la guerra è fatta e raccontata da donne suore che non esitano a scimmiottare i paladini di Francia che «altro non vedono che osterie e deretani di serve» e se ne vantano; ogni battaglia è una parata senza ragione e senza importanza, mentre il fine ultimo della vita è da rintracciare nella ricerca della verità.
Anche ad essere si impara
Tutti i personaggi cercano qualcosa che non esiste – o che si rivela inconsistente – e finiscono per raggiungere quello che non cercavano, in un errare vano or quinci or quindi di ariostesca memoria.
Il cavaliere ideale che i paladini credono sia da imitare, Agilulfo, è un’armatura che si aggira con grazia sul palco ed esiste soltanto nella misura in cui persiste il fondamento della sua gloria e il suo ruolo sul campo di battaglia.
Agilulfo è pura forza di volontà, una perfezione tanto rigorosa da non essere vera.
«Non c’è indosso, togliere o mettere per me non ha senso». Eppure, anche se non esiste, è lui per tutti l’unico nome che veramente conta.
Con una interpretazione efficace e poliedrica, in grado di destreggiarsi tra tanti dialetti italiani quanti sono i luoghi menzionati da Calvino, le quattro interpreti tengono le fila dell’azione e della narrazione e restituiscono al pubblico lo spessore e la complessità del racconto, lasciando emergere quello che serve, nel modo in cui, oggi, serve capirlo.
Il viaggio si fa scrittura, la scrittura labirinto e la vita una quête dolorosa ma necessaria alla ricerca di se stessi e di un vero ideale per cui combattere, che non sia soltanto un ammasso di ferraglie da indossare davanti a tutti, ma una ragione di vita valida. Che non sia, insomma, soltanto un modo di apparire, ma di essere. Perché «anche ad essere si impara».
Il cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno, fino al 1 dicembre al Teatro India. Incantevole.
Foto di Riccardo Mischianti