La coscienza di Zeno di Paolo Valerio | Recensione

La coscienza di Zeno di Paolo Valerio | Recensione

La coscienza di Zeno di Paolo Valerio va in scena al Teatro Bellini, direttamente dal romanzo di Italo Svevo, capolavoro della letteratura novecentesca, per i cent’anni dalla data della sua prima pubblicazione.

I grandi classici al Teatro Bellini

Italo Svevo va in scena al Teatro Bellini di Napoli con La coscienza di Zeno di Paolo Valerio, nella versione diretta da quest’ultimo: una delle svolte peculiari nel panorama della letteratura novecentesca, che ha saputo rendere fruibile un’analisi tanto spietata quanto vera e autentica sulla fragilità insita nell’essere umano, con uno sguardo psicanalitico di non poca valenza. Con la partecipazione attoriale del grande Alessandro Haber, con Alberto Fasoli, Valentina Violo, Stefano Scandaletti, Ester Galazzi, Emanuele Fortunati, Francesco Godina, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin e Giovanni Schiavo. Una menzione speciale al lavoro in video eseguito da Alessandro Papa, una parte fondamentale nella struttura di questa pièce, e alla produzione del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e della Goldenart Production.

Si legge nella sinossi di La coscienza di Zeno di Paolo Valerio: «Zeno ci rivela l’inciampo, l’umanità… E anche il personaggio di Alessandro Haber s’intreccia a questa inettitudine e talvolta, durante lo spettacolo, si sovrappone l’uomo all’attore, per sottolineare “l’originalità della vita”. Zeno ci appartiene, racconta di noi, della nostra fragilità, della nostra ingannevole coscienza, della voce che ci parla e che nessuno sente e che ci suggerisce la vita. Attraverso l’occhio scrutatore del Dottor S. ho cercato di restituire la dimensione surreale, ironica e talvolta bugiarda di Zeno, immersa nell’atmosfera della sua Trieste e di tutti gli straordinari personaggi che la vivono. Un immaginario il cui respiro cerebrale dialoga con il mondo dell’arte, con la psicoanalisi e dove ho cercato di rendere con forza la dialettica fra “esterno e interno” nella spietata analisi che Zeno fa della propria esistenza, lasciando costantemente aperta una finestra sul proprio mondo interiore».

La coscienza di Zeno di Paolo Valerio: perché?

È chiaro che ci sia una forte importanza testocentrica in La coscienza di Zeno di Paolo Valerio, il cui lavoro di adattamento scenico e di regia conseguente segue effettivamente i momenti salienti della scrittura narrante di Italo Svevo, mettendone in luce quegli aspetti che lo rendono un classico importante finanche ai giorni nostri. Ma è altrettanto chiaro (o dovrebbe esserlo) che portare un romanzo sulla scena non può esaurirsi (o limitarsi) al testo stesso, bensì comporta una serie di prospettive che guardano a certe leggi di palcoscenico. Pertanto, sarebbe forse scontato e riduttivo porre l’attenzione su un discorso celebrativo sul classico sveviano, su quanto l’autore originale abbia creato un’opera senza tempo che è ovvio ci parli ancora oggi. A questo punto il discorso potrebbe essere: il lavoro di passaggio dalla scrittura romanzesca alla drammaturgia scenica, tutto il pensiero e l’operato del regista con il cast artistico – al di là della bravura, anch’essa fuor di discussione con tanto di cappello – è stata funzionale?

Sicuramente La coscienza di Zeno di Paolo Valerio vanta di un lavoro scenografico e stilistico finanche nei costumi di dettagli e di attenta peculiarità, creando già così un impatto importante. Inoltre, avere un nome in locandina come quello di Alessandro Haber non può che essere una sorta di garanzia, almeno per certi aspetti. Ancora una volta, la questione non è né sul testo, né sugli attori, né sugli altri aspetti “tecnici” della scena, ma riguarda una complessità di ritmo. Soprattutto quando si è davanti a testi classici del genere, o meglio, in particolare quando questi stessi classici sono romanzi e, dunque, per loro stessa natura vivono attraverso la parola e tutta la struttura che la concerne, nel momento in cui essi vengono resi in forma di spettacolo o vanno deframmentati, decostruiti e ricostruiti secondo una narrazione scenica, oppure il rischio è quello di dare al pubblico l’idea di una lettura. A questo punto, viene da chiedersi: cos’è uno spettacolo? Perché scegliere un classico come questo? Si tratta di un discorso celebrativo? È un esercizio di stile, l’ennesima prova di bravura sul palco? Che, infine, è anche un peccato perché quell’autenticità di cui drammaturghi, registi e attori si fanno portavoce diventa sfumata e non ben percepibile. Certamente, queste sono domande, dubbi volendo, ma il lavoro giornalistico serve proprio a osservare e creare spunti di riflessione, in tal caso finanche sul domandarsi in che direzione stiano andando i lavori teatrali nel voler recuperare la memoria e riportarla all’attualità.  

Fonte immagine di copertina: Ufficio Stampa

A proposito di Francesca Hasson

Francesca Hasson nasce il 26 Marzo 1998 a Napoli. Nel 2017 consegue il diploma di maturità presso il liceo classico statale Adolfo Pansini (NA) e nel 2021 si laurea alla facoltà di Lettere Moderne presso la Federico II (NA). Specializzanda alla facoltà di "Discipline della musica e dello spettacolo. Storia e teoria" sempre presso l'università Federico II a Napoli, nutre una forte passione per l'arte in ogni sua forma, soprattutto per il teatro ed il cinema. Infatti, studia per otto anni alla "Palestra dell'attore" del Teatro Diana e successivamente si diletta in varie esperienze teatrali e comparse su alcuni set importanti. Fin da piccola carta e penna sono i suoi strumenti preferiti per potere parlare al mondo ed osservarlo. L'importanza della cultura è da sempre il suo focus principale: sostiene che la cultura sia ciò che ci salva e che soprattutto l'arte ci ricorda che siamo essere umani.

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