Va in scena al Piccolo Bellini del Teatro Bellini di Napoli dal 20 novembre al 1 dicembre La morte a Venezia di Liv Ferracchiati (ovvero: La morte a Venezia, libera interpretazione di un dialogo tra sguardi), ispirato liberamente al racconto di Thomas Mann.
La morte a Venezia di Liv Ferracchiati: un percorso scenico completamente rielaborato
Con La morte a Venezia di Liv Ferracchiati, la drammaturga, regista e attrice della pièce, insieme al drammaturgo Michele De Vita Conti, e alla compagna di scena, danzatrice Alice Raffaelli mette in scena uno spettacolo che decostruisce il racconto di Thomas Mann, ricomponendolo in una forma totalmente nuova. Non viene adoperata una narrazione solita e lineare, bensì, viene creato un percorso scenico che al suo interno raccoglie tre tipi di linguaggio: la parola, che si cristallizza e si frantuma in tantissime piccole schegge infinitamente mutevole ogni volta; la proiezione in video, che da la possibilità di avvicinarsi ai dettagli, crea opportunità di sguardi; la danza, che con quel potere evocativo funge da collante, lega e crea una sintonia armoniosa. Fulcro di tutto lo spettacolo, infine, resta lo sguardo, la tematica del vedere in profondità, oltre.
Infatti, così si legge nella sinossi di La morte a Venezia di Liv Ferracchiati: «Una macchina fotografica su un treppiede al limitare delle onde e uno scrittore che muore su una spiaggia per avere mangiato delle fragole contaminate dal colera, simbolo dell’inesplorato che c’è in ognuno di noi. Non un adattamento teatrale de La morte a Venezia, ma un percorso scenico liberamente ispirato al romanzo che combina tre diversi linguaggi: parola, danza e video. Distaccandosi dal tema dell’omoerotismo e della differenza d’età, rimane l’incontro a Venezia tra Gustav Von Aschenbach e Tadzio, rimane la morte. Due sconosciuti che vivono ciò che Mann riassume così: «Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo».
Di sguardi profondi e possibilità teatrali
La morte a Venezia di Liv Ferracchiati, per quanto risulti uno spettacolo strutturato su una certa complessità data dall’utilizzo della parola, che come un’onda si infrange e si ricompone in tutta la sua impetuosità, è pur vero che mette in gioco una possibilità davvero interessante di valutare certi confini teatrali. Infatti, unendo la danza con la prosa e, soprattutto, con il linguaggio della cinepresa, si restituisce la capacità di notare e focalizzarsi sui dettagli, si va a rinforzare la capacità dello sguardo, smorzando e, talvolta, arricchendo la parola stessa. Si crea, così, una forma teatrale in cui i tre tipi di linguaggio visti fino ad ora vivono una loro gerarchia ai fini della narrazione drammaturgica ma, al contempo, creano un insieme coeso armonioso. All’incontro con la regista e la danzatrice, al seguito dello spettacolo, è stata posta la domanda se si è stati portati a vedere maggiormente la proiezione o la scena e la risposta è stata diretta verso entrambe le alternative, proprio perché si è scelto un modo di comunicare armonioso. Un valore da non sottovalutare soprattutto al giorno d’oggi, ovvero in un momento in cui è inevitabile che il linguaggio della cinepresa abbia un proprio forte impatto. E che cos’è, tra le tante cose, il teatro se non quell’arte di legare?
Fonte immagine di copertina: Ufficio Stampa