L’arte della commedia in scena al San Ferdinando

arte della commedia

Dal 16 al 26 febbraio va in scena al teatro San Ferdinando L’arte della commedia di Eduardo De Filippo, adattamento e regia di Fausto Russo Alesi.

Lo spettacolo — che è una commedia del vivere e del sentire, prima ancora di essere una messinscena recitata —, riesce bene a rendere giustizia all’opera di De Filippo e, al contempo, a risvegliare le coscienze che dominano e subiscono l’immediato presente. Gli interpreti Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Michele Schiano di Cola sono accumunati dal desiderio profondo di dare voce a quello spicchio di mondo dimenticato, che sempre più sta ampliando il proprio raggio, sino ad arrivare ad accogliere la maggioranza, rimasta inascoltata.

L’arte della commedia è l’arte dello stare al mondo

Contrapponendo il riso e lo scherno all’abbandono e alla miseria, la meraviglia della finzione e l’improvvisazione della creazione sono atti di rivoluzione.

L’arte della commedia di Eduardo De Filippo riprende vita sul palco del teatro San Ferdinando, per volere di Fausto Russo Alesi, che, spinto da un legame inscindibile, artistico e visceralmente umano, con il maestro De Filippo, ha iniziato a studiare già prima della pandemia questo testo, capolavoro geniale e autentico di affermazione di sé e di volontà di riconoscimento.

L’opera è divisa in due atti e un prologo. La lunga durata dello spettacolo sottolinea quella ricerca di senso connaturata al teatro d’allora, che andrebbe riscoperta e approfondita anche adesso. Il tempo della rappresentazione de L’arte della commedia neppure basta a comunicare tutto ciò che ci sarebbe da dire, ma almeno provoca una spinta alla ribalta, alla rivendicazione del proprio ruolo, una sana rabbia, mai sopita.

Appena si spengono le luci della sala, si ha subito l’impressione di confondere realtà e finzione. Oltre ai personaggi fisicamente presenti sul palcoscenico, siamo invitati a prestare attenzione anche alle loro ombre, riflesse sulle pareti laterali del proscenio. Quelle figure tetre, fantasmatiche, incerte, sono l’alter ego invisibile di chi parla, il nero malcontento, che si cela dietro una gaiezza apparente, pure necessaria a “tirare a campare”.

Oreste Campese è il capocomico di una compagnia composta dai membri della sua famiglia, che si esibisce da anni in un Capannone, andato a fuoco da poco. Il malcapitato si presenta alla Prefettura, per raccontare al prefetto l’accaduto, per ricevere un supporto, un piccolo risarcimento per poter continuare a esercitare, senza troppe perdite, danni economici e morali, il suo mestiere di artista.

La visita si trasformerà, però, in una intricata e bizzarra commedia avventurosa, nella quale si concentrano il possibile e l’impossibile, la cruda e triste verità, e l’assurdità della simulazione, inattesa e, sempre beata.

Oreste attende lungamente prima di essere ricevuto dal Prefetto, al freddo e al gelo e senza mangiare, perché gli attori della sua generazione, i cosiddetti figli d’arte, sono abituati a «colmare la fame ingoiando la saliva», e attingono a una fonte di nutrimento ben più soddisfacente del cibo: la performance teatrale, l’atto generoso e riempitivo del dare e ricevere attraverso l’esibizione. La goliardia anima il loro gesto e la loro parola, e sazia più di qualsiasi altra prelibatezza.

Oreste trascorre intere ore d’attesa, ma anche piene di azioni solidali da parte del piantone Veronesi (nella comicissima e impacciata interpretazione in dialetto veneto di David Meden), e dalla padrona dell’osteria (Sem Bonventre), tanto sensuale quanto premurosa, che vuole a tutti costi offrirgli un piatto di minestra calda. 

Giunto finalmente il momento di essere ricevuto dal Signor Prefetto (rigoroso e dolce), Campese mostra tutta la sua riverenza e il suo timore nel presentarsi dinanzi a una figura di tale spessore istituzionale, ma, una volta entrato nello studio, con le sue doti drammaturgiche, riesce a trasformare quel contesto, così austero e formale, in una meta-realtà rocambolesca e malinconica, seriosa e beffarda, l’unica nella quale può sentirsi pienamente a suo agio.

Ne L’arte della commedia, Oreste Campese si racconta, e, al di là della sua storia personale, si fa testimone di una comune condizione: il misero destino che imperversa su ogni attore, che ha scelto di fare del teatro la sua professione. Così comincia a partire proprio dalla sua infanzia: Oreste è venuto alla luce nel buio delle quinte di un palcoscenico, il suo esordio alla vita ha avuto inizio nel retroscena. Il chiaroscuro è suo amico, la contraddizione è fedele compagna della sua esistenza, fatta di stenti e precarietà, ma anche di allegria ed eccentricità.

Sin dal primo momento in cui è stato gettato sulla terra (la scena più ardua da sostenere), ha imparato che il sublime si colloca in un punto incerto a metà tra la verità e la menzogna, tra il concreto accadere delle cose, la tangibile costatazione del vero, e la fantasia e il meraviglioso: i capisaldi dell’immaginifico e curioso palco-finestra (o «buco di serratura») sul mondo. La sua compagnia — spiega il capocomico — è composta da abili trasformisti, potenzialmente grassi, bassi, oppure alti e slanciati, che possono interpretare ruoli di ogni tipo, dal più umile al più nobile.

Una cassetta di trucchi e qualche costume è tutto quello che rimane dall’incendio del Capannone, quanto basta per continuare a giocare e prendere in giro, ma, a loro modo, affrontare, la vita reale, con tutte le annesse difficoltà. Il prefetto, al contrario del suo segretario (romanaccio dignitoso e fiero della propria professione), si rivela inaspettatamente più aperto all’ascolto di storielle paradossali di “guitti perditempo”.

L’eminentissimo prefetto ha familiarità con il teatro, ha recitato anche lui anni addietro, e conosce a memoria le battute di Shakespeare. Quello che non può comprendere a fondo è, però, l’intento civile, etico e politico dei teatranti, il loro sentirsi divulgatori di un messaggio, bramosi di innescare un cambiamento, di lanciare un urlo, o di «sputare il rospo».

Così comincia un dibattito tra i due e, se da una parte il prefetto sostiene che il teatro sia morto, che non c’è più nessuno che scrive testi drammaturgici validi, che la comicità altro non è che intrattenimento, dall’altra, il capocomico afferma, invece, che gli attori sono vivi e pieni di energie e idee per mimare la vita, per alleviarne il dolore, per ricucire le ferite, e fare i conti con quelle aperte.

I guitti sono una banda di matti, si intrufolano da tutte le parti imbizzarriti e intristiti per l’arido vero, ma la loro utilità è indiscutibile, la funzione essenziale che svolgono di mediatori tra le varie classi sociali è sacrosanta. Questa è pure la finalità de L’arte della commedia. Il loro carattere eclettico li investe anche di autorità e potere: quella di fare ciò che vogliono, perché in grado di camuffarsi e  di  non farsi sgamare, e quella di diventare quello che gli pare: poveri o ricchi, piccoli eroi del quotidiano, eppure grandi dominatori dello straordinario.

La conversazione diventa un confronto acceso tra i due. Ne L’arte della commedia Oreste e il prefetto appaiono personalità così distanti nell’ordinario svolgersi delle loro rispettive mansioni, ma così vicine per lo scopo che le loro figure professionali si prefiggono: il benessere dei concittadini, l’osservazione attenta dei caratteri e delle esigenze del popolo, la risoluzione, seppur temporanea o illusoria, di problematiche ataviche e che, ciclicamente, ritornano.

A un punto sembrano confondersi tutti i ruoli socialmente stabiliti: come in teatro, dove è possibile rovesciare tutto, rivelare di ogni cosa il suo contrario, smascherare l’inganno, la prefettura diviene una pedana, la porta d’entrata un sipario, il Prefetto stesso si trasforma nel pubblico di uno spettacolo, in cui partecipa anche la platea. 

Se il mestiere dell’attore finora «non c’era nel sillabario», d’ora in poi il capocomico si farà riconoscere, riceverà l’investitura ufficiale da parte del prefetto, o, una denuncia, che fa lo stesso: comunque equivale a una menzione. L’arte è inventarsi, improvvisarsi ogni volta, da capo, in circostanze favorevoli e avverse.

Dopo aver scatenato l’ira del prefetto, il Campese viene letteralmente cacciato fuori dall’ufficio. Forse ha azzardato una proposta troppo confidenziale, ha sottovalutato la serietà del lavoro che il Dottore svolge, si è permesso di invitarlo al teatro comunale, come ospite speciale, per assistere all’ultima opera della sua compagnia: Il buco della serratura (storie ordinarie di persone comuni, spiate da un occhio che guarda, appunto, attraverso una fessura).

Il netto rifiuto da parte del suo interlocutore, spinge il capocomico a congedarsi con la minaccia che manderà alla prefettura ad uno ad uno i suoi attori, e che sarà impossibile riconoscerli, perché sono eccellenti maschere, più reali dei tipi umani.

Complice dell’irrisolto artificio è il foglio (l’elenco degli appuntamenti) che, per errore, Oreste si è portato via dalla scrivania del capo della prefettura. Comincia ora ne L’arte della commedia la parata della gente comune che chiede l’ausilio delle istituzioni, la richiesta d’aiuto è, in realtà, una richiesta d’ascolto.

Arriva prima il medico, che si lamenta del proprio anonimato, nonostante abbia salvato numerosissime vite, e seguito per anni pazienti in gravi condizioni. Si innesca qui la diatriba mai risolta tra fede e scienza: i suoi pazienti sono più devoti a Dio, che al dottore, e si servono di quest’ultimo per curarsi, ma grazie e riconoscimenti li rivolgono all’Altissimo, e al poveruomo non rimane niente.

Segue il prete, la maestra e, infine, il farmacista. Ognuno ha un’esigenza diversa, ognuno ha una storia privata, oltre quella pubblica. Questi attori o persone reali — l’enigma non ci sarà mai rivelato, resta il dubbio ne L’arte della commedia: sintomo e germe intrinseco nell’atto creativo — diventano strumenti, per affrontare questioni e problemi primordiali e ancora attuali: il bisogno di essere tutelati, il diritto di aborto e di divorzio, l’inerzia e la corruzione che coinvolgono l’intero paese.

Da un altro punto di vista, però, il dottore, il prete, la maestra e il farmacista, altro non sono che Oreste Campese, ovvero uomini che amano il proprio lavoro, che si adoperano al servizio degli altri, che vanno avanti per la loro strada, nonostante la derisione, la solitudine, la povertà, l’umiliazione. Il Capannone gli è crollato addosso, e il fuoco non ha lasciato che ceneri sparse su ciò che, giorno per giorno, hanno costruito.

Scoppia infine ne L’arte della commedia la confusione: c’è un morto, non si sa se sia vero o finto, c’è un neonato, non si capisce chi se ne dovrà occupare. C’è ciò che si disintegra una volta per tutte, e ciò che rimane: ecco l’arte, ecco la commedia.

Lo spazio teatrale è un luogo un po’ trascendente, un po’ terreno, non si ha mai la previsione di cosa sta per succedere, è lo scrigno segreto dove si tiene nascosto l’imprevisto, come un tesoro, come una possibilità di salvezza.

Il teatro rappresenta la provvisorietà di tutto, quindi la sua enorme ricchezza, il valore inestimabile di ciò che è caduco, ma si traveste da eternità. Oreste ha compiuto la sua rivoluzione sociale e privata, ci ha mostrato i ferri del mestiere, e, attraverso il chimerico scherzo del metateatro, ci ha resi partecipi e complici del trucco.

Ne L’arte della commedia, Campese ha sbugiardato i falsi e i potenti, togliendosi la maschera, mostrandosi fragile e vulnerabile, ma dalla tempra forte e resistente: è un meta-attore, ma un uomo integro, è incertezza e determinazione.

Se «quando in un dramma teatrale c’è uno che muore per finzione scenica, un morto vero in qualche parte del mondo o c’è già stato o ci sarà», allora quando sul palcoscenico si recita e, al tempo stesso, si compie la vita, — esattamente come è accaduto al San Ferdinando la sera della prima de L’arte della commedia —, cosa ci si deve aspettare più dalla realtà?

Immagine: Teatro di Napoli

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A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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