In scena al teatro Arcobaleno di Roma fino al 26 ottobre l’adattamento di Alessandro Machìa dell’Oreste di Euripide. Caos e spettacolo con un finale affrettato e imprevedibile.
“Oggi è il giorno stabilito. La città deciderà se noi dobbiamo morire. Solo Menelao può salvarci, non c’è scampo per una casa caduta nella sventura”. Alessandro Machìa – che ne cura adattamento e regia – rivisita l’Oreste euripideo in una messa in scena che punta a evidenziare il susseguirsi caotico e insensato di eventi tipico della nuova tragedia euripidea. Sul palcoscenico del Teatro Arcobaleno, fino a domenica 26 ottobre, Andrea Tidona, Marco Imparato, Giulio Forges Davanzati, Alessandra Fallucchi, Claudio Mazzenga, Silvia Degrandi, Caterina Petrucci, Alessandro Giorgi, Alessia Ferrero luigi.
Oreste di Euripide: la trama
Oreste, il matricida protagonista della trilogia eschilea Orestea, si fa eroe fragile e romantico, tormentato da una follia tutta umana, in preda ai deliri, con lo sguardo stravolto e la mente posseduta dal fantasma della madre che si scopre il seno supplicando pietà.

Vittima e carnefice, ha evitato le Erinni del padre – vendicatrici del sangue familiare versato ingiustamente – poiché ne ha vendicato la morte, ma è inseguito dalle Erinni di Clitemnestra, morta per mano sua.
Al suo fianco la sorella Elettra, complice del matricidio. Oreste la implora: “Ti prego, cura lo sfacelo della mia mente”. Lei, terrorizzata ma fedele, ripercorre l’antefatto con la zia Elena, mentre la cugina Ermione è incaricata di portare libagioni sulla tomba di Clitemnestra. Tre generazioni che portano sulle spalle il peso delle colpe dei loro avi, da Tantalo a Pelope, da Atreo e Tieste fino ad Agamennone e Menelao.
Oreste: l’eroe nuovo di Euripide
La sua malattia si chiama consapevolezza. La consapevolezza di aver scelto di uccidere colei che lo ha allevato al fine di riscattare la memoria di colui che ha fondato la stirpe, una stirpe dannata e destinata ad affogare nel suo stesso sangue. La madre, d’altro canto, non è altro che un campo fertile in cui l’uomo pianta un seme; un ventre che deve essere riempito, senza alcun ruolo attivo nel concepimento. La procreazione è cosa da uomini.
Il figlio di Agamennone è da una parte il tipico eroe di Euripide, dilaniato da un irriducibile dissidio interiore, dall’altro è strumento nelle mani di un Apollo che prima gli ha imposto di uccidere la mamma e poi non è riuscito a salvarlo dalla dannazione. Empio per aver ucciso la madre, pio per aver reso onore alla memoria e al nome del padre.
Il suo dramma è quello dell’uomo solo sotto a un cielo fatto di carta velina, muto, indifferente. Gli dei non bastano più a garantire l’ordine e la redenzione; gli eventi si succedono senza rigore logico, a fronte di una spettacolarità tutta giocata sull’intreccio e sul colpo di scena. Una spettacolarità che l’adattamento di Machìa riproduce più nello stile di recitazione degli attori – volutamente ricca di pathos, rumorosa e caotica – che nel movimento scenico, ridotto al minimo al pari della scenografia.
L’Oreste nell’adattamento di Machìa
A metà del dramma compare Tindaro, padre di Clitemnestra e tra i protagonisti del dramma. Avanza vestito di nero e addita Oreste come empio per non essersi attenuto né alla giustizia né alla legge dei Greci. Non è da Greci porsi al di sopra delle leggi, né commettere matricidio né perdonare un matricida.
È il popolo degli Argivi a dover giudicare Oreste e la sorella per il crimine commesso. Entrambi confidano nella protezione di Menelao, che invece si rivela pusillanime e lascia che in assemblea prevalga il discorso acceso e ambiguo dei politicanti, l’unico in grado di convincere le masse. La sentenza è riferita da due viandanti che per caso hanno assistito alla votazione e che per dare profondità alla scena si precipitano sul palco dal fondo della platea: è la condanna a morte per entrambi.
Prima di morire, insieme, per giustizia, i protagonisti architettano un piano di vendetta ad hoc contro Menelao e Elena, prontamente salvati dagli dei.
Lo scioglimento della vicenda, intricata e affollata in pieno stile euripideo, sopraggiunge in modo maldestro con un deus ex machina fuori contesto, vestito in abiti moderni, con un flûte di prosecco in mano e un ghigno molto poco drammatico stampato sul viso. Elena non muore, ma scompare, accolta in cielo dagli dei e dai Dioscuri. Gli altri personaggi si sistemano alla bell’e meglio, ma si fa fatica, onestamente, a capire come si è arrivati alla risoluzione della vicenda.
Immagini fornite dal teatro

