Veneri al Tedér, scritto, diretto e interpretato da Rosa Cerullo, Ludovica Franco, Serena Francesca Catapano, è andato in scena nell’ambito del Campania Teatro Festival il 24 giugno. Le tre attrici protagoniste, con l’aiuto regia di Marco Napolitano ed Eliseo Fusco, sviscerano e destrutturano l’immagine di Venere a partire da se stesse. Si interrogano sul destino delle proprie vite e si fanno statue di carne e ossa per mettere a nudo le loro fragilità, ma anche per prendere atto della fermezza delle loro intenzioni (forti come il marmo) e della potenza delle loro braccia tornite – alla faccia della Venere di Milo.
Il mercato è in crisi, ma questa Venere non è in vendita
Le Veneri al Tedér si presentano sulla scena come pezzi in vendita di una bottega: una porta appeso al collo un cartello rosso con scritto VENDESI, le altre due hanno un codice a barre appiccicato sul braccio. Il pubblico che entra in sala ha l’impressione di trovarsi davanti a una vetrina, ma sedendosi si accorge di aver schiacciato una piccola conchiglia color di perla, promessa di poesia.
Le tre Veneri al Tedér si raccontano, si conoscono sin da bambine e hanno in comune un lavoro che le appassiona: sono tre artigiane che modellano statuette rappresentanti la Venere. Si tratta per lo più di copie ma sanno bene come venderle, riempiendole di magia attraverso il potere delle parole, anch’esse custodi antiche di storie mitologiche.
La scenografia delle Veneri al Tedér evoca il potere del mare, la nascita, l’onda turbolenta che tutto genera. Al centro del palcoscenico si erge un cumulo di sabbia che ha la forma di una giovenca possente e al contempo malleabile, friabile come un granello. Venere con la sua spinta trasformativa si incarna nelle tre attrici e invade tutta la scena: con un po’ d’immaginazione ci sembrerà di vederla anche in un birillo rosso e panciuto, ci apparirà poi come una scatola di cartone vuota. Quest’ultima viene descritta dalla più riflessiva delle tre amiche, stanca di sentir parlare ancora di questa dea come un contenitore, una conchiglia, una pura forma senza desiderio che plasma assecondando quello altrui, gravida del sogno di vendetta di un altro.
La Nascita di Venere triforme: un mostro bellissimo
Le tre Veneri napoletane usano il tornio e realizzano una Venere in movimento, lasciandosi alle spalle tutta quella sfilza di dee maestose, dai corpi perfetti ma anchilosati, lattiginosi.
Tre Veneri al Tedér con la salopette blu si punzecchiano, canticchiano ma poi si mettono al lavoro. La loro immaginazione non ha limiti. La loro Venere può saccheggiare i genitali evirati di Urano, può avere mille braccia e la faccia ben in vista, perché il volto riflette il pensiero.
Le tre attrici recitano prima facendo sentire forte la propria singola voce – per rompere quel silenzio statuario, con cui quotidianamente devono fare i conti – e poi fondendosi in un unico coro. È un grido all’unisono verso la libertà, un desiderio ininterrotto che procede di generazione in generazione, tramandato dalle loro nonne, che rivendica l’unica prole che valga ancora la pena di generare: semi di libertà.
Dopo aver scavato fin sotto l’ultimo granello di sabbia, penetrato la terra, chiuso il mare in una scatola, la schiuma di Venere necessita un’operazione chirurgica per farsi di nuovo statua. La composita e insolita scultura richiede una manualità abilissima. La lavorazione è complessa e trina, da portare avanti servendosi di sei mani, di tre cuori. Viene fuori un mostro bellissimo, un essere triforme di un biancore baluginante.
In Veneri al Tedér, dopo aver chiuso con i pezzi del passato, serrato bene nello scatolone i residui di una bambola, come vivi e fulgidi spermatozoi, le tre artigiane salgono sull’altare, non per darsi in sacrificio ma per farsi protagoniste del proprio destino, fecondando e partorendo se stesse. Ecco l’opera che non è più statua ma figura in movimento e, come un’attrice di teatro, finalmente pura carne.
fonte foto: fotografo di scena Carmine Beneduce