Slava’s Snowshow porta la sua magia al Bellini

Slava's Snowshow

Slava’s Snowshow, ormai considerato «un classico del teatro del XX secolo», approda al Bellini. Dal 7 al 12 marzo è possibile assistere a questa fiabesca, lirica, comica e malinconica, rappresentazione teatrale, ideata da Slava Polunin, «il miglior clown del mondo».

In una dimensione sospesa a metà tra il mondo onirico e quello reale, Slava’s Snowshow ci consente di tornare bambini, di regredire senza vergogna e disagio, di impallidire e piangere, ma anche di ridere a crepapelle.

Giocosamente Slava’s Snowshow racconta una fiaba senza tempo, alla quale il pubblico partecipa attivamente, non solo divertendosi con i protagonisti in scena, ma pure immergendosi in un’esperienza sensoriale completa: si bagna durante il temporale, viene travolto da una tempesta di neve, subisce gli scherzi dispettosi dei clown.

Il dramma di diventare adulti si scioglie come neve: Slava’s Snowshow fa giocare a palla grandi e piccoli, rallegra gli animi più malconci

«Volevo approfondire la tragicommedia, per studiare il limite in cui si può fondere il dramma con la risata. Per studiare il limite in cui un personaggio mite e indeciso, perplesso e abbagliato, può attrarre un pubblico contemporaneo.[…]Cominciai a rallentare il ritmo, a valorizzare gesti insignificanti che ora mi sembrano molto più espressivi e colorati di quelli pomposi o solenni. Mi sono affezionato a gesti incompiuti, interrotti, congelati, come tagliati da un pensiero improvviso.»

Le parole del creatore e regista dello show ci consento di avere subito un’idea – sebbene vaga e teneramente confusa – di quale sia l’intenzione di partenza di Slava Polunin, mimo russo, di formazione chapliniana, riconoscibile per la sua eccentrica pantomimia, da lui stesso definita ironicamente «idiozia espressiva».

Slava’s Snowshow è il figlio legittimo di Slava Polunin, generato spontaneamente dalla sua sensibilità. Si tratta di un prodotto autentico della sua formazione teatrale e clownesca, ma anche di uno spettacolo-bambino in continua evoluzione e trasformazione, che, con il passare degli anni, aggiunge e toglie qualcosa: un dettaglio, un’espressione mimica, una movenza più o meno semplice e buffonesca, parallelamente al processo di crescita e indagine interiore che – contemporaneamente a quello del personaggio – compie l’autore.

La scena si apre con un’impiccagione, il tentato suicidio da parte di Asisyai, il clown più riflessivo e istintivo che si sia mai visto, una figura così vera e dignitosamente umana, al punto che non risulta difficile immaginare il volto della persona nascosta dietro tutto quel trucco, e il corpo fragile che balla dentro un costume enorme e giallo, luminoso e grigio al contempo.

Il tentativo di suicidarsi non riesce, perché al capo apposto della corda c’è agganciata la testa di un altro clown, che sembra aver preso la stessa tremenda iniziativa di farla finita. Da questo inizio tragico, dal fallimento di un dramma architettato male, dal ridicolo imprevisto, nasce la sottile trama di scherzosa fiaba, allegra e triste, che attraversa l’intera messinscena.

In un gioco di inseguimenti silenziosi e di passi rumorosi, sbucano sul palco gli altri clown, tutti con piedi ingombranti, e andature impacciate, dai volti sconsolati e felici. Ognuno di loro compie gesti stupidi, perché finiscono per stupire il pubblico.

In Slava’s Snowshow questi clown ci prendono in giro fino a farci entrare automaticamente in empatia con il loro dolore, che è quello semplice di uomini che attraversano momenti tempestosi, bufere di difficoltà, che vorrebbero fuggire, prendere il primo treno e andare via, ma che infine strappano il biglietto e scelgono di restare, nonostante tutto, per gioire della neve, per sciogliersi in un pianto liberatorio, o sfogarsi con una risata isterica.

Sono alti e bassi, alcuni sembrano giganti, ma poi si accovacciano su se stessi sino a diventare piccoli bimbi o adulti-nani, sono snodati come molle elastiche. Sono acrobatici, saltano sulle teste degli spettatori, e ci camminano sopra come enormi ombre che inquietano, ma sono timorosi e fanno tenerezza perché, a un punto, hanno difficoltà a camminare, cascano a terra.

Con disinvoltura si muovono tra la gente, e cercano affettuosamente qualcuno da guardare negli occhi, qualche sorriso da rubare, un braccio attorno al collo che gli dia calore, una ragazza con cui ballare.

Con ingenuità si divertono a rincorrere bolle di sapone, con furbizia spostano dispettosamente giacche e borse ai signori in sala, costringendoli a scambiarsi uno sguardo, a interagire tra loro.

Questi clown si presentano come dei mendicanti, sono poveri alla ricerca di condizioni di vita migliori, ma sono ricchi di spirito, immensamente privilegiati per lo sguardo di fantasia e stupore, con il quale guardano al mondo.

Nel pensiero occidentale (a partire da Aristotele fino a Hobbes e Baudelaire), l’essenza del comico in relazione al fenomeno artistico, si è sempre basata sul principio di comparazione, o meglio di superiorità, da parte di chi ride nei confronti dell’oggetto del riso. Il clown risulta ai nostri occhi bizzarro perché fa delle cose che noi, persone mature e seriose, non potremmo mai sognarci di fare. 

Slava’s Snowshow va ben oltre questo presupposto e ne crea uno nuovo, per mezzo della fusione inedita tra un’intima vicinanza con il sentire dei personaggi e il ridere di loro, che – in virtù di un patto di fratellanza non prestabilito, ma stretto miracolosamente nel corso dello show, tra chi si esibisce e chi assiste – equivale a prendere in giro noi stessi.

Cade la neve sui nostri corpi smarriti nella platea di un grande teatro, dove Slava’s Snowshow è riuscito nell’ardimentosa impresa di creare una ricreazione temporanea, con un’atmosfera apparentemente fredda e gelida a causa della rigidità del clima, ma estremamente calorosa, per la sintonia inaspettata che si istaura con il vicino, seduto sulla poltrona accanto, e che ti passa la palla, e si tiene stretto alla poltrona come te, per non farsi travolgere dalla tormenta.

Da Slava’s Snowshow se ne esce stravolti e felici, irrimediabilmente irrisolti, ma forse un po’ più capaci di beffarsi della gratuità e dell’insensatezza di tante sventure, che viviamo in prima persona, che abbiamo appena visto rappresentate.

Oltre al bianco tra i capelli, e al viso bagnato dalla pioggia e dalle lacrime, quello che spicca è, però, il sorriso stampato sulla faccia di chi, grazie a Slava’s Snowshow, ha fatto pace, almeno per un paio d’ore, con l’infante che gli dimora dentro e che, ininterrottamente, si rallegra e si dispera.

creato da Slava Polunin

regia Viktor Kramer e Slava Polunin

costumi ed effetti speciali Slava Polunin

suono Roman Dubinnikov, Slava Polunin

distribuito in Italia da TAM ON TOUR in collaborazione con Gaap Booking

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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