Dolce Tempesta, intervista a Dario Pastorino | NiC

Vincitore del Premio della Giuria Popolare il 27 settembre scorso durante la rassegna NiC – Storie Indipendenti, organizzata da Avamat, “Dolce Tempesta” è il cortometraggio diretto da Dario Pastorino e prodotto da “N.I.P.” aps che ci porta nell’Italia degli anni Cinquanta. Una storia delicata e potente, quella di Francesca (interpretata da Diletta Masetti), giovane madre affetta da una malattia terminale che dedica i suoi ultimi giorni alla formazione umana e culturale dei suoi figli. 

Abbiamo intervistato Dario Pastorino che ci racconterà il viaggio creativo dietro il cortometraggio, le sfide affrontate nel dar vita a una storia così intima e i temi universali che attraversano il suo fare cinema.

 

Quando è nato il suo rapporto col cinema? C’è stata un’opera in particolare che ha segnato l’inizio di questa passione?

Il mio rapporto con il cinema è nato dalla mia esigenza di raccontare storie, che a loro volta nascono da emozioni o esperienze personali. Ho sempre avuto una profonda curiosità per l’arte visiva e per la narrazione. Una delle opere che ha fortemente influenzato la mia passione è stato Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, una pellicola che mi ha toccato nel profondo, soprattutto per il modo in cui viene celebrato il legame tra memoria e cinema. Mi ha fatto capire quanto potente possa essere il mezzo cinematografico nel trasmettere sentimenti ed emozioni.

In quale momento della sua vita ha sentito il bisogno di creare questo cortometraggio? Cosa l’ha spinto a raccontare una storia così intima?

Il bisogno di creare Dolce tempesta è nato in un momento in cui sentivo forte l’esigenza di riflettere sul valore della memoria e su quanto sia fondamentale preservare certi legami affettivi, specialmente in una società che, giorno dopo giorno, sembra allontanarsi sempre più dai valori tradizionali. Dopo aver realizzato un corto dedicato a mia nonna, sono stato contattato da Rino Piroscia, che mi ha chiesto di realizzare qualcosa di simile per sua madre. Questo mi ha spinto a raccontare una storia intima e universale allo stesso tempo, perché il tema del ricordo e del lascito emotivo è qualcosa che ci riguarda tutti.

Ritengo che oggi, più che mai, sia importante perseguire il culto della memoria, soprattutto in una società contemporanea dove valori come la famiglia, nella sua visione più ampia e inclusiva, stanno lentamente scomparendo. Raccontare storie come quella di Francesca e Sasà non è solo un tributo a chi non c’è più, ma un modo per ricordare che, senza radici, rischiamo di perderci. È un invito a non dimenticare chi siamo e da dove veniamo, proprio mentre ci proiettiamo verso il futuro.

Cosa spera di trasmettere al suo pubblico? Come spera arrivi Dolce tempesta a chi lo guarda?

Spero che Dolce tempesta faccia riflettere sul valore del tempo che trascorriamo con le persone care e su come i loro insegnamenti possano accompagnarci per tutta la vita. In un certo senso, il film richiama il tema centrale del capolavoro di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, dove il tempo non è solo un elemento cronologico, ma un mezzo per dare significato ai ricordi e alle emozioni che ci definiscono.

Vorrei che il pubblico si immergesse nella storia di Francesca, percependo la forza di un amore che va oltre la morte, un sentimento che, come nella riflessione proustiana, rimane sospeso nel tempo e vive nei ricordi. Francesca, pur sapendo di avere poco tempo, lascia ai figli un’eredità di valori e amore che li accompagnerà sempre. Il vento nel film, simbolo della memoria, continua a soffiare nella vita dei protagonisti, tenendo vivo quel legame indissolubile.

Credo che oggi, in un mondo in cui tutto corre così veloce, sia fondamentale fermarsi e dare importanza al tempo che condividiamo con chi amiamo. La memoria non è solo un ritorno al passato, ma una risorsa che ci dà forza nei momenti più difficili e ci ricorda chi siamo.

Quali sono state le sfide più grandi del portare questa storia sullo schermo? C’è stata qualche scena in particolare che ha trovato difficile, dal punto emotivo e/o tecnico?

Una delle sfide più grandi è stata mantenere l’equilibrio tra il dolore del racconto e la speranza che Francesca desidera lasciare ai suoi figli. Non volevo che la narrazione risultasse troppo pesante o opprimente, ma allo stesso tempo dovevo rendere giustizia alla profondità della storia e al suo messaggio di resilienza. La scena più difficile da girare, sia emotivamente che tecnicamente, è stata quella del dialogo tra il piccolo Sasà e Francesca. È un momento molto intimo che mi ha toccato profondamente, poiché racconta un mio ricordo d’infanzia legato alla paura di perdere mia nonna. Rivivere quella fragilità emotiva è stato impegnativo, ma anche catartico, perché mi ha permesso di trasformare un’esperienza personale in arte.

Dal punto di vista tecnico, la sfida più grande è stata quella di gestire contemporaneamente l’aspetto creativo e tutta la parte produttiva, distributiva e comunicativa del cortometraggio. Con poche risorse a disposizione, mettere insieme una troupe e coprire ruoli indispensabili è stato estremamente difficile. Tuttavia, sono orgoglioso di esserci riuscito, perché il risultato finale riflette il duro lavoro e la dedizione di tutti coloro che hanno collaborato al progetto.

Nel cortometraggio è presente anche una sua canzone, Raccontami di lei: come ha usato la musica per intensificare l’esperienza emotiva?

La musica, per me, è un linguaggio potentissimo per intensificare le emozioni. Raccontami di lei accompagna i momenti chiave della storia di Sasà, il protagonista, e il suo ricordo della madre. Ho voluto che la melodia evocasse quel senso di nostalgia e affetto che si prova quando si pensa a chi non c’è più, come un vento che porta con sé i ricordi. La canzone aggiunge un ulteriore livello di profondità emotiva alla narrazione, permettendo allo spettatore di connettersi ancora di più con la storia.

Che altri temi le piacerebbe mostrare in futuro? Può anticipare qualche progetto in cantiere ai nostri lettori?

In futuro, mi piacerebbe approfondire temi legati alle sfide delle nuove generazioni, come la ricerca di senso in un mondo sempre più complesso e l’impatto che la tecnologia ha sulle nostre vite, non solo a livello sociale ma anche emotivo. Credo che sia fondamentale raccontare storie che non siano solo una manifestazione di tecnicismi o una ricerca estetica fine a se stessa. Il mio desiderio è tornare al vero scopo dell’arte: emozionare, offrire spunti di riflessione e lasciare una traccia significativa nelle persone che guardano i miei lavori.

Vorrei dedicarmi a raccontare storie di vite vissute da persone comuni, spesso sconosciute, che, nonostante l’anonimato, hanno affrontato sfide enormi e straordinarie. Sono quelle storie, spesso taciute, che possono ispirare e dare un senso più profondo alla vita degli altri. Come i cantastorie di un tempo, mi piacerebbe essere un tramite per raccontare il coraggio, la resilienza e l’umanità di uomini e donne qualsiasi, che con la loro esistenza riescono a insegnarci molto. Non si tratta più solo di stupire o impressionare, ma di restituire alla vita quel valore e quella profondità che talvolta sembra perdersi nella superficialità del quotidiano.

Fonte immagine: Youtube

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A proposito di Marcello Affuso

Direttore di Eroica Fenice | Docente di italiano e latino | Autore di "A un passo da te" (Linee infinite), "Tramonti di cartone" (GM Press), "Cortocircuito", "Cavallucci e cotton fioc" e "Ribut" (Guida editore)

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