Honey Boy di Alma Har’el (film) | Recensione

Honey Boy di Alma Har'el (film) | Recensione

Honey Boy di Alma Har’el è un viaggio introspettivo e profondo alla scoperta di tre mondi: quello della regista Alma Har’el, che con questo film vede il suo sorprendentissimo esordio alla regia, quello di Shia LaBeouf, autore per intero della sceneggiatura, e quello di noi stessi.

La trama di Honey Boy

Otis Lort (interpretato da uno splendido Lucas Hedges) è un attore caduto nella spirale dell’alcolismo. In seguito ad un incidente stradale e ad una colluttazione con la polizia, l’attore viene costretto ad iniziare un percorso riabilitativo e di disintossicazione per evitare la reclusione in seguito a molteplici atti ritenuti violenti. Comincerà qui il suo lungo percorso alla riscoperta del suo passato, durante il quale Otis rielaborerà il rapporto con suo padre James Lort (interpretato da Shia LaBeouf stesso) e gli eventi che hanno condizionato la sua vita e lo hanno portato a diventare un alcolista.

Il lavoro attoriale e l’intimità dell’interpretazione

L’interpretazione che si cela dietro Honey Boy è forse una delle più profonde e intime degli ultimi anni. Il giovanissimo Noah Jupe (Otis bambino) ci consegna tra le mani, ancora una volta, un’interpretazione tanto forte e diretta da riuscire a dipingere magistralmente ogni sfumatura dell’emotività del suo personaggio. Lo si sa: quando si è chiamati a rappresentare alcuni tipi di personaggi non è facile riuscire a donare loro la tridimensionalità che serve a non scadere nella banalissima melodrammaticità, che trasformerebbe un’opera profondamente intima in un’opera che si muove sulle note di una tristezza fine a sé stessa. Eppure, Noah riesce magistralmente a vestire i panni di un bambino diviso a metà tra l’amore imprescindibile che prova verso suo padre e la tristezza derivata dal fatto che da quel padre, in realtà, non ottiene mai ciò che un bambino dovrebbe realmente ottenere: un amore incondizionato. Discorso simile per Shia LaBeouf che, come dicevamo, ha avuto il lavoro emotivo forse più duro dell’intero cast: interpretare il “padre abusivo” in una sceneggiatura autobiografica scritta per intero da lui stesso in riabilitazione come parte del suo processo di recupero. Un esercizio di empatia importante: egli veste i panni di James mentre, in realtà, il suo ruolo naturale è proprio quello di Otis. La chimica che si crea sullo schermo tra James e Otis ci tocca a livello intimo, personale, viscerale.

Il film

Ciò che affascina di Honey Boy è quanto la sceneggiatura sia cruda, genuina e irrimediabilmente sincera. Il film si fonda su una relazione profondamente problematica tra due persone che si amano ma non possono farlo in modo sano a causa del loro rispettivo carico emotivo. Honey Boy trasuda realismo, mostrando il dolore di un conflitto familiare e generazionale che non finisce, ma si tramanda. Il peccato non fa altro che generare altro peccato, e in una famiglia gli stessi peccati si tramandano fino a quando qualcuno – in questo caso Otis – non è pronto a gridare: «Io voglio che tu sia un genitore migliore per me», chiedendo di essere apprezzato, rispettato e curato come meriterebbe. E la parte più difficile di questo processo non è tanto il chiedere a voce alta di essere apprezzati, rispettati e curati. La parte più difficile è riuscire ad esserlo realmente, e quando sei costretto in una vita in cui vorresti fare la cosa giusta e diventare una persona migliore ma vivi un dolore così forte che te lo impedisce diventi arrabbiato, intollerante, ti perdi, e alla fine diventi la versione peggiore di te stesso. Dai nostri genitori ereditiamo le parti migliori e le parti peggiori, e le difficoltà del dover convivere in maniera equilibrata con queste parti gravano inevitabilmente su di noi. Ma il bello di Honey Boy è che ci mostra come sia possibile riconciliare anche le relazioni più devastate quando guardiamo oltre le volte in cui diciamo a noi stessi che non è possibile, che ormai tutto è perduto.

Alma Har’el riesce dunque benissimo nel raccontare, attraverso questi salti temporali fatti di flashback e flashforward, l’esperienza biografica di Shia LaBeouf. E non è per niente scontato, perché con storie così forti si rischia di diventare troppo pesanti e di non riuscire mai a passare una morale reale allo spettatore. Molto interessanti e particolarmente azzeccate sono la color, l’illuminazione ambientale e la colonna sonora, che contribuiscono a creare un contesto in cui lo spettatore non è mai soltanto spettatore, perché nella storia dei personaggi si ritrova sempre un po’ della propria storia personale. La regista capisce che il perno del film non è altro che la sceneggiatura, e non compie scelte di regia azzardate che avrebbero altrimenti distolto l’attenzione dalla storia che il film ha intenzione raccontare. La mano della regia è visibile sui primi piani intensi e sui movimenti di camera a mano, che contribuiscono ancor di più al compimento del fine principale del film. Honey Boy vuole essere un dolceamaro colpo al cuore, e ci riesce perfettamente. L’unica cosa che potremmo recriminare al film, probabilmente, è la poca importanza attribuita alle scene con Lucas Hedges (Otis adulto) per mostrare maggiormente il suo percorso di recupero. Niente di troppo grave, sia chiaro, ma è un rimpianto al quale non si riesce a smettere di pensare quando si sentono delle frasi come «L’unica cosa che mi ha donato mio padre è la sofferenza, e tu vuoi portarmela via?». Un viaggio immenso, duro, nel quale ci saremmo immersi volentieri di più.

Il messaggio finale di Honey Boy che allevia il peso sul cuore

«Un seme deve completamente distruggersi perché possa diventare un fiore. È una violenza, Honey Boy».

È questo il messaggio con cui si chiude la pellicola, e non potevamo chiedere di più. Honey Boy vuole essere e riesce ad essere una forma onesta e genuina di autoterapia, con uno Shia LaBeouf che stupisce sia come sceneggiatore che come attore. Potremmo dire che alla fine il film non riesce a purificarci del tutto (e forse non può realmente farlo), ma riesce a dirci ciò che avremmo tutti voluto sentire lungo l’ora e 30 minuti che compone la pellicola cinematografica: possiamo andare avanti e lasciar sì che il nostro passato non ci perseguiti come un’ombra malefica. Possiamo tutti crescere attraverso il nostro dolore e sfruttare il tempo che ci rimane per diventare ciò che tutti meriteremmo di essere: delle anime pure, non gravate dal peccato e dal senso di colpa.

Fonte dell’immagine di copertina: Trailer ufficiale del film della Adler Entertainment su Youtube.

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