Aksana Danilcyk e la parola dipinta: Il Canto del ghiaccio

Aksana Danilcyk e la parola dipinta: Il Canto del ghiaccio

Arriva in Italia Il Canto del ghiaccio della poetessa bielorussa Aksana Danilcyk (Controluce edizioni, 2019), volume bilingue per la traduzione di Marco Ferrentino, in cui l’autrice esprime la profondità di un pensiero indiviso da scarti linguistici attraverso la partitura di immagini pregne di significati intimi confusi ad archetipi letterari classici.

La poesia contemplativa Aksana Danilcyk: immagini e silenzi

Nella lettura di un libro come Il canto del ghiaccio è opportuno tener presente che la duplice anima poetica di Aksana (italiana e bielorussa) non si riflette semplicemente nella traduzione dei versi da una lingua all’altra. Essa si costituisce a partire da un “noviziato” letterario in cui lo studio della lingua e la cultura italiana in ambito universitario coesistono con l’afflato poetico che caratterizza i suoi componimenti. Oltre che di articoli di letteratura (bielorussa e italiana), Aksana è autrice di traduzioni di alcuni tra nostri più grandi poeti e intellettuali: si ricordino tra le varie, infatti, ad esempio le sue versioni del De vulgari eloquentia di Dante e dei Sepolcri di Foscolo, che, in senso più ampio, hanno conferito al genio bielorusso un lessico che definisce, in una certa misura, un linguaggio icastico di matrice neoclassica. Si legga ad esempio la lirica Rocca Paolina (p. 12), il cui riferimento è da ritrovarsi nell’omonima fortezza perugina di epoca rinascimentale:

Passi sempre queste catacombe

per vedere che dai colli d’oliveti

scende il giorno di serena amarezza

nella valle dove il tempo s’è fermato,

dove anche i sogni sono quieti,

dove marzo scioglie la freschezza,

mille nastri alzano il profumo

delle primule ancor prudenti.

Ogni tanto nella realtà terrena

sulle pietre, che il sole accarezza,

si abbinano le firme dei maestri

con graffiti di pochissima durata.

sorge sinfonia dei colombi

con solenne musica legata

ai misteri dell’immensità celeste.

Passi sempre queste catacombe…

Dopo un incipit contemplativo e lento, i versi della seconda stanza sembrano esprimere con pacato dinamismo la fugacità del tempo (non scevro da certe implicazioni religiose) e della vita attraverso i “graffiti di pochissima durata” e la “sinfonia di colombi”. Evidente anche il riferimento al magistero di actoritates non direttamente citate (le “firme dei maestri”), che comunque lascia intendere la grande importanza che Aksana attribuisce al exempla del passato e al messaggio che con le loro opere (letterarie, artistiche e architettoniche) essi hanno lasciato ai posteri, messaggio inteso sia in termini letterari che artistici; e in tal senso pare anche notarsi una forte attenzione alla “parola dipinta” dai versi, che trova esplicito riferimento nella lirica Il giorno di Ferdynand Ruščyc (p. 66), dedicata al pittore bielorusso e polacco, nella quale i contorni “tenebrolucenti” dell’immagine evocata si traducono in una riflessione intima sull’immobilità del tempo fisiologico (pur nella sua ciclicità) la mobilità, quasi durata bergsoniana, di quello biologico.

Ritornando, poi, a Rocca Paolina e al legame instaurato con le auctoritates, va considerato forse l’incontro che questi versi istituiscono con quelli della lirica Il canto dell’amore di Carducci, riferiti alla medesima costruzione. Inoltre sembrerebbe possibile far risalire una prima intuizione poetica del componimento (o forse la sua stesura) alla stagione della formazione dell’autrice, la quale compì i suoi studi, oltre che all’Università Statale Bielorussa, presso l’Università per Stranieri di Perugia.

Ascrivibili al “filone” italiano (pur non inteso in senso stretto) sono anche altre poesie, tra cui Traducendo Campana (p. 76), emblematica per la profonda connessione e la contemporaneità dell’attività di traduttrice e la creazione poetica espressa nel suo titolo, e la poesia Caronte (p. 72), in cui il “demonio” dantesco, a mano a mano, smette gli “occhi di bragia” e assume una fisionomia meno terrificante agli occhi del lettore grazie alla presenza di un passero che gli si posa sulla spalla. Si veda in particolare la seconda parte del componimento:

Caronte, invecchiato e indebolito,

non può più remare,

quindi la sera accende i fuochi

sopra lo Stige.

I fuochi si allungano sull’acqua

in un nastro oscillante,

e infine uniscono le due rive,

costringendo le nostre anime

ad imparare a camminare sull’acqua.

Solo che a nessuna è data

la possibilità di poterlo raccontare.

Ancora, attraverso quella pacatezza che il lettore può constatare lungo l’intero libro, Aksana Danilcyk confronta e unisce armoniosamente immagini che sembrano opposte, la tenerezza del passero e la fisionomia formidabile del Traghettatore, facendo sì che quest’ultimo sia dunque investito di una humanitas che altrimenti gli sarebbe sconosciuta. Nella seconda parte della poesia, Caronte è raffigurato come un uomo invecchiato e indebolito dal suo lungo compito, e ciò è da riferirsi a un’intera comprensione del sistema oltremondano dantesco, in quanto va ricordato come egli porterà a termine le sue mansioni una volta che al mondo le anime saranno smistate tutte in Paradiso o all’Inferno; il passero, la vecchiaia e, in un certo senso, l’“inutilità” di Caronte gli conferiscono un’aura “altra” rispetto a quella a cui si è abituati, entro la quale si risolve il destino della vita umana.

Non mancano, inoltre, liriche legate anche al contesto storico come Le donne sovietiche (p. 42), in cui Aksana riflette con note pessimistiche sulla condizione di coloro che sono «nate per soddisfare | le esigenze della società | nel riprodurre forza lavoro a basso costo» (vv. 1-3), sottomesse a un’ideologia patriarcale che tende a sminuirne le aspirazioni personali. Si tratta dunque di una poesia in cui Macrostoria e Microstoria si fondono, conferendo alla seconda uno statuto di maggiore importanza, dato dalla vita mancata di chi ha consentito a quanti e (soprattutto) quante son venuti dopo di poter scrivere la propria Storia:

E adesso addio, donne sovietiche,

pregherò per le vostre vite sprecate,

in cui c’è stato così poco amore,

che non siete in grado di trasmetterlo a nessuno. (vv. 25-28)

Il canto del ghiaccio di Aksana Danilcyk si configura, dunque, come una silloge che raccoglie liriche afferenti a diverse stagioni della vita dell’autrice, tutte legate da una matrice contemplativa nei confronti della realtà circostante; una realtà concreta che si carica di significati e simboli personali, che tuttavia si aprono all’interpretazione dell’attento lettore, come del resto testimonia la lirica Poesia, in cui si esprime a pieno l’idea di poesia come messaggio affidato al cuore del lettore. In altri termini, la poesia è di chi la sa ascoltare nelle sue immagini e guardare nei suoi silenzi:

 

esiste solo una

possibilità

di salvare questa

poesia

dalla solitudine –

restare finalmente

nel contesto delle tue braccia.

Immagine: Controluce

A proposito di Salvatore Di Marzo

Salvatore Di Marzo, laureato con lode alla Federico II di Napoli, è docente di Lettere presso la scuola secondaria. Ha collaborato con la rivista on-line Grado zero (2015-2016) ed è stato redattore presso Teatro.it (2016-2018). Coautore, insieme con Roberta Attanasio, di due sillogi poetiche ("Euritmie", 2015; "I mirti ai lauri sparsi", 2017), alcune poesie sono pubblicate su siti e riviste, tradotte in bielorusso, ucraino e russo. Ha pubblicato saggi e recensioni letterarie presso riviste accademiche e alcuni interventi in cataloghi di mostre. Per Eroica Fenice scrive di arte, di musica, di eventi e riflessioni di vario genere.

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