Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana | Analisi

Il verdetto finale nel contenzioso

Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana di Šaʽbān b. Salīm b. ʽUṯmān al-Ṣanʽānī è un testo che si divide in 192 versi poetici che insieme costituiscono una urguza: una poesia in ragaz, un metro breve usato per lo più per temi leggeri e popolareschi.

Le due donne protagoniste, per l’appunto una dama e una cortigiana, si rivolgono ad un giudice per risolvere il loro contenzioso: la poesia rappresenta infatti l’istruttoria e il processo che il giudice, anche detto ḥakim, racconta di aver messo in atto su istanza delle due. Il punto centrale dell’argomentazione è chi fra di loro, intese come categorie di donne, sia la preferita degli uomini.

Le due protagoniste, nel corso dei 192 versi, elogiano le proprie virtù e denigrano i difetti dell’altra, su una dicotomia bianco-nero che ricalca le metafore classiche della poesia descrittiva araba: se, infatti, la donna libera inizia a denigrare le schiave, la cortigiana si paragona a una claiffa, in quanto donna di corte.

In un primo momento il giudice cerca in qualche modo di placare i contrasti, sostenendo che tutto si basa sui gusti personali di ciascun uomo ed è proprio a questo punto del dialogo che s’insinua la questione del matrimonio. La donna libera, infatti, sostiene che la controversia non si basa solo su preferenze estetiche ma anche, e soprattutto, sulle forme di accoppiamento: il matrimonio legale esclude ogni forma di matrimonio temporaneo, detto mutʽa, ed è proprio su questo punto che la dama e la cortigiana vogliono far chiarezza.

Il giudice, prima di arrivare al verdetto finale nel contenzioso, inizia un elogio ad entrambe le categorie di donne e alle loro infinite qualità, risolvendo la questione con un furbo ma non troppo convincente: «L’uomo ha bisogno d’entrambe le cose / come la testa due orecchie vuole».

Le protagoniste si dicono soddisfatte, tuttavia, vogliono che il giudice in persona prenda in sposa, temporaneamente, la favorita tra le due. Da qui, il giudice parte con una disquisizione di carattere legale nella quale espone le ragioni della sua contrarietà all’istituzione della mutʽa. Termina, mettendo fine al contenzioso, con un’esortazione alla conciliazione a rigor del fatto che per quanto i ruoli delle due donne siano diversi non sono affatto incompatibili, sottolineando che l’attività della schiava sarebbe lecita se esercitata nella condizione di donna libera.

I personaggi de Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana

Ne Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana la presenza di tre personaggi, il giudice, la donna libera e la schiava, pone le basi per uno scenario narrativo complesso composto non solo dall’alternarsi di argomentazioni più o meno passive, ma da un vero e proprio dialogo a tre che quasi rimanda a una rappresentazione scenica, collegabile al genere di intrattenimento del hayal al-ẓill, il teatro delle ombre.

Il giudice, l’ḥakim, che potrebbe essere considerato come il portatore del pensiero dell’autore, è con tutta probabilità un sunnita. Egli, infatti, cita come fonti primarie il Profeta, Abu Bakr e ʽUmar per esprimere la sua contrarietà al matrimonio temporaneo; tuttavia, non manca di dimostrare la sua curiosità sui gusti sessuali delle donne.

Il secondo personaggio de Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana è poi la dama, detta hurra. È una donna bianca, definita gada, ossia una giovane e libera signorina da marito. Nel suo caso, solitamente, il matrimonio era combinato dietro contrattazioni fra le famiglie influenti. Tuttavia, questo personaggio si pone in maniera abbastanza forte all’interno del dialogo, non disdegnando di utilizzare toni abbastanza sarcastici per insultare la rivale; inoltre, affronta con forza la questione della legittimità del concubinaggio e del matrimonio temporaneo, ambedue ritenuti forme di adulterio e prostituzione.

Come ultimo ma non meno importante all’interno de Il verdetto finale nel contenzioso c’è il personaggio della cortigiana, la schiava. Per lei si alternano due termini: ama e qayna. La ama, spesso tradotto come odalisca, denota una serva di casa destinata alla cura della famiglia e dell’harem; la qayna, invece, tradotto letteralmente come cantante, è una schiava destinata all’intrattenimento. Il personaggio in questione è sicuramente una donna nera, una abissina. Il colore della sua pelle riporta alla dicotomia bianco-nero: il colore della notte contrapposto al bianco, il giorno, della donna libera.

Schiave e concubine: differenze nella terminologia e rapporto con il padrone

Partendo dal personaggio della schiava de Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana, è bene specificare che nelle società arabo-islamiche dei primi secoli dopo l’egira, il lavoro servile era ampiamente diffuso. La servitù assume diversi ruoli e questi ultimi sono distinti tramite una terminologia specifica. I termini ama e gariya designano la schiava destinata sia a lavori domestici che operai, oltre che all’intrattenimento. La qayna, invece, è una schiava educata prettamente all’intrattenimento del padrone e dei suoi ospiti, cantando, danzando e recitando poesie.

A volte quest’ultima categoria di schiave si prestava anche a scopi sessuali e l’autorizzazione che possedeva il padrone a godere di tali piaceri, nel diritto islamico, era indicata con l’espressione coranica ma malakat aymanu-kum, ovvero quelle che la vostra mano destra possiede.

Tuttavia, anche le schiave possono sposarsi, nonostante in questi casi il diritto matrimoniale porti a una serie di problematiche. Una schiava può, ad esempio sposare un altro schiavo, o un uomo libero, con il permesso del padrone; questo, però porta inevitabilmente a un conflitto di interessi tra il padrone e la schiava, che acquisisce il nuovo status di donna sposata. Può capitare, inoltre, che durante i rapporti sessuali tra la schiava e il padrone nascano dei figli: in questo caso il figlio nasce libero mentre la madre resta schiava fino alla morte del padrone, dopodiché ella diventerà a sua volta una donna libera.

È interessante cercare di capire se anche una donna libera, che ha la facoltà di possedere degli schiavi, possa in qualche modo esercitare il diritto di possesso, ovvero il milk yamini-ha; tuttavia, se si guarda a questa questione sotto un aspetto linguistico, si noterà che il verbo tasarra, che significa prendere una donna come concubina, descrive un’azione che può essere svolta solo da un uomo nei confronti di una donna.

L’istituzione del matrimonio temporaneo (o di piacere)

Uno dei temi principali ne Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana è l’istituzione del matrimonio temporaneo, la mutʽa.

All’interno dell’islam c’è, tutt’oggi, una contrapposizione netta fra islam sunnita e islam sciita. Il primo è proibizionista, tanto da assimilare la pratica della mutʽa a mera prostituzione; il secondo, invece, è permissivista, in quanto considera la suddetta pratica distintiva e anche identitaria della dottrina islamica. Il dibattito scaturisce principalmente a causa dell’ambiguità di alcuni passi del Corano.

Ci sono due modi per definire il matrimonio temporaneo: nikaḥ al-mutʽa (matrimonio di piacere) o mutʽa al-nisa (godimento di donne), ambedue indicano una forma di unione contrattuale tra uomo e donna segnata da determinate condizioni: un contratto, che può essere sia scritto che verbale, fra le due parti in cui viene stabilita la durata (agal) del matrimonio e il compenso (agr) che lo sposo deve alla sposa; alla scadenza del contratto la donna è libera ma dovrà aspettare un certo periodo di tempo prima di stipulare un nuovo contratto matrimoniale.

Aspetto molto interessante è la generazione di figli: tendenzialmente viene praticato il coitus interruptus ma, nel caso in cui la donna restasse incinta, l’uomo è obbligato a farsene carico.

Questa tipologia di matrimonio, secondo l’esegesi islamica, era in uso nella Mecca e nell’Arabia preislamica; ci sono, infatti, attestazioni sparse dal IV al XIX secolo d. C. che dimostrano la diffusione di questa pratica a dispetto di normative legali o religiose.

Il rito del pellegrinaggio, alla Mecca come in altre città, era alla base del matrimonio temporaneo. Verso il settantesimo verso del poemetto de Il verdetto finale nel contenzioso fra la doma e la cortigiana, infatti, viene usato il termine ganib per indicare il cliente della cortigiana, che si traduce letteralmente come forestiero: sono proprio gli uomini provenienti da altre città a sposare una donna per il periodo che ritenevano utile a sbrigare i propri affari, così che le donne custodissero le loro proprietà (taḥfaẓa mata). Secondo lo storico A. Gribetz, l’uomo, quindi, approfittava del pellegrinaggio canonico (ḥagg) per compiere la ‘umra o pellegrinaggio minore, che sarebbe effettivamente legata alla pratica dell’istimta, ossia la ricerca di un contratto di mutʼa. Tuttavia, è previsto che durante il pellegrinaggio l’uomo si astenga dai rapporti sessuali per questo da alcuni è ammesso il tamattuʽ, un’astensione temporanea dallo stato sacrale che permette di godere dei piaceri sessuali.

L’avvento dell’islam nel VII secolo ha ovviamente inciso molto su questa pratica: si cercava in tutti i modi di normalizzare ogni aspetto della vita umana; tuttavia, in epoca storia, l’islam non giunse mai a un consenso unanime su questa forma di matrimonio.

Il verdetto finale nel contenzioso fra la dama e la cortigiana di Šaʽbān b. Salīm b. ʽUṯmān al-Ṣanʽānī risulta, quindi, un poemetto che offre spunti di riflessione molto interessanti e particolari, spesso considerati fuori dal coro rispetto a studi più canonici sulla società islamica.

Fonte immagine: Pisa University Press

A proposito di Di Costanzo Mariachiara

Mariachiara Di Costanzo, classe 2000. Prossimamente laureata in Lingue e Culture Comparate all'Università degli Studi di Napoli L'Orientale. Appassionata di moda, musica e poesia, il suo più grande sogno è diventare redattrice di Vogue.

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