La ferita è il nuovo titolo del libro di Lucio Leone, di Alessandro Polidoro Editore. Dopo il successo della presentazione del romanzo presso la libreria Iocisto al Vomero, ecco la recensione.
«L’uomo e la morte, li lega la parola»
Lucio Leone ha creato un precedente ne La ferita: ha chiamato per nome un qualcosa che non si può né toccare né vedere, qualcosa che spesso è latente e neanche si sente che striscia negli abissi della propria coscienza. Ma dare un nome a questo qualcosa, la depressione, significa la responsabilità di assumerne consapevolezza ed è esattamente questo che l’autore accompagna il lettore a fare. Sfogliando le pagine de La ferita si percorre una strada non lineare ma dissestata, piena di curve e di incroci con momenti passati e futuri. La distinzione tra passato, presente e futuro è privata di ogni senso: cos’è il tempo? È qualcosa che vive dentro l’uomo, ma nella realtà non esiste e nel momento in cui ci si immerge nella propria coscienza, esso diventa un miscuglio. Allora, il passato si ricongiunge al presente e insieme sono già futuro. Così il protagonista affronta il suo viaggio catartico.
Un uomo svolge una professione misteriosa: incide i corpi di morti suicidi per vivere con loro l’ultimo gesto estremo e fare sì che questo non si compia. Ma i tentativi iniziano ad andare tutti storti, quell’uomo non riesce più a svolgere correttamente il suo lavoro e ben presto si ritrova a dovere affrontarne il perché. Ecco che il passato raggiunge il suo presente, bussa alla sua porta come un amico di vecchia data che lo ha chiamato per anni senza mai ricevere attenzioni: è il suo male, quell’albero di pietra che continua a crescere che chiede di essere ascoltato. Da quello stesso albero coglie il frutto della conoscenza e si auto incide per affrontare il suo mostro nascosto al buio sotto al letto, un evento che lo ha segnato per sempre con una ferita mai rimarginata.
La ferita: «siamo la coscienza critica del cosmo»
Dopo avere incontrato la propria coscienza ormai malata, prosciugata dalle amarezze, qual è l’esatta consapevolezza da assumere? Sono interrogativi che l’autore nel suo romanzo si pone indirettamente, addolcendo la pillola attraverso una fiaba, ma una fiaba dark senza un lieto fine convenzionale. Eppure, Lucio Leone attraverso il suo protagonista cerca di scardinare la visione che la morte, come conseguenza della depressione, sia una risoluzione negativa: «Nella morte la mia coscienza diventa la coscienza di miliardi di parti di me. Parti che saranno un nuovo me, parti che erano state frammenti di stelle». L’autore fa diventare la morte un fatto che è comune a qualsiasi essere umano che ha un inizio ed una fine, nonché una scelta per chi ha malattie come la depressione da non banalizzare con tanta facilità. La morte è l’esplosione di una supernova che colora il cielo terso, attraverso cui ci si ricongiunge all’origine, al cosmo. Ed è con ciò che il cosmo si interroga sui suoi perché e si rigenera, impara.
Posto che trovare una soluzione che sia una cura è fondamentale, il messaggio che Lucio Leone lancia con il suo romanzo La ferita è quello di non colpevolizzare chi sceglie di mettere fine alla sua esistenza. Al contrario, è un gesto complesso, difficile da definire tanto quanto lo sono quegli alberi di pietra che pesano come macigni. L’albero, però, è anche simbolo di vita, di rinascita e l’autore prova ad immaginare una fine che non significa dispersione ma unione di un qualcosa che si farà altro. È un libro fatto della dolcezza di una fiaba, della densità del suo essere dark e della delicatezza di sfiorare domande fin troppo ampie alle quali non ci sono risposte pronte. È proprio qui il senso de La ferita: non rispondere, non credere di avere trovato qualcosa, ma cercare sempre includendo e interrogando sé stessi e gli altri.
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