Le madri non dormono mai di Lorenzo Marone | Recensione

Le madri non dormono mai di Lorenzo Marone

 

Lorenzo Marone nasce a Napoli nel 1974. Si laurea in Giurisprudenza, esercita l’avvocatura per quasi dieci anni per poi lasciare il suo impiego da avvocato per dedicarsi alla scrittura. Raggiunge il successo con La tentazione di essere felici (Longanesi, 2015), con il quale vince il Premio Stresa e il libro diviene l’ispirazione del film La Tenerezza diretto da Gianni Amelio. Altri suoi libri sono Magari domani resto (Feltrinelli 2017), Cara Napoli (Feltrinelli 2018), Tutto sarà perfetto (Feltrinelli, 2019) e La donna degli alberi (Feltrinelli, 2020). Vive a Napoli con la moglie Flavia e il figlio Riccardo. Le madri non dormono mai è il suo ultimo libro, pubblicato nel Maggio 2022 da Einaudi.

Il romanzo “Le madri non dormono mai” immerge il lettore in una realtà scomoda e difficile da accettare, quella realtà che ognuno di noi, borghesi chiusi nelle proprie illusioni, fa finta che non esista. Chi sono le madri di cui parla il romanzo e perché non dormono? Donne fragili, di diverse nazionalità e comportamenti diversi, ognuna con una storia violenta, tragica alle spalle, ma tutte accomunate dal fatto di essere madri e di cominciare a sentire la loro maternità in un non luogo che è l’ICA, una struttura di detenzione attenuata dove le detenute vengono accolte con figli piccoli sotto i dieci anni. Non celle, ma bivani, con cucina e porta aperta che solo di sera viene chiusa come accade nelle case comuni; le finestre danno su un cortile in cui i bambini giocano, si divertono, si festeggiano compleanni e ogni festività. Sembra quasi per un attimo di trovarsi nel classico quartiere napoletano in cui dalla finestra si parla con la signora dirimpettaia, si spettegola e si litiga mentre i bambini si divertono. Quelle finestre, però, hanno le sbarre come dice una di quelle mamme Miriam, che riconosce la realtà delle cose e non cede all’illusione. Il paradosso però è che quella che di fatto è una prigione nel corso del romanzo sembra prendere vita e assumere davvero la consistenza di una casa fatta di normalità e di affetti.

Le sbarre che circondano le protagoniste di “Le madri non dormono mai” spesso sembrano non escludere dal mondo ma piuttosto fare da scudo contro la   sua crudeltà e, così,  il rapporto fuori-dentro si rovescia: il dentro le sbarre finisce con diventare più sopportabile della realtà al di fuori. Ed è proprio in quel momento che quelle vite spezzate, escluse, derelitte riscoprono la loro umanità. Come accade a Miriam, diffidente verso tutti, troppo ferita per credere in qualcuno, Miriam di una bellezza prorompente che è quasi una disgrazia (la nasconde con il cappuccio), Miriam che al figlio insegna l’unica legge che conosce, quella del più forte,  viene spiazzata proprio da quel figlio che invece sorride a tutti, è gentile e vede solo il bello che c’è.

“C’era in Diego a soli nove anni la capacità d’accorgersi dei vuoti degli altri e il coraggio e l’anima buona per tentare di riempirli con la sua presenza” Sarà proprio Diego ad insegnare alla madre cosa è la vita, ad insegnarle il perdono verso se stessa innanzitutto e poi verso gli altri, e piano piano il ghiaccio del cuore di Miriam si scioglierà a tal punto da farle accogliere perfino le sofferenze di un’altra bambina Melina, che la conquisterà. Melina è una bambina con le gambe storte che non le consentono di muoversi agevolmente, con una madre malata e un fratello di 16 anni, che conduce una vita pericolosa, e anche per lei il carcere sembra garantire condizioni migliori di vita: “però la notte melina si coricava senza fame e aveva lenzuola asciutte, una stanza da mantenere in ordine e un bagno privato”

C’è di più però:  “Le madri non dormono mai” è un romanzo particolare, un brutto romanzo che ti verrebbe la voglia di chiudere per tutte le lacrime che ti costringe a versare, per l’infinita malinconia che finisce con l’avvolgere il cuore quando lo si legge. Mentre si racconta la vita giornaliera dei tanti che vivono in quella sorta di carcere edulcorato, una specie di mosaico di decine di esistenze, viene fuori che la prigionia è la condizione esistenziale di tutti. Greta la psicologa del carcere, Miki il secondino non vivono nel carcere ma vivono il loro carcere, il vuoto di vite fallite, di scelte sbagliate, di matrimoni che si reggono solo per ipocrisia, in cui ognuno si è perso per non ritrovarsi più, di solitudini in spazi ristretti: Greta costretta ad accudire e ad accompagnare un padre che nulla le aveva dato fino alla fine; Miki che ha confinato la sua esistenza nel rapporto con il fratello disabile che dipende da lui e trova il suo sfogo nella corsa sfrenata in auto con la musica a palla. Ed anche in questo caso il barlume di umanità sembra che questi personaggi lo ritrovino dove nessuno se lo aspetterebbe, il carcere. Questo è probabilmente l’aspetto del romanzo che colpisce di più e che viene confermato dal finale impietoso che non risparmia nessuno e che soprattutto infierisce sull’unico personaggio che della vita voleva fidarsi e che voleva crederci. Non c’è alcun messaggio confortante in questo romanzo, è simile ad un film le cui scene  si svolgono su un fondo nero…ogni tanto si intravede un piccolo squarcio di luce ma il fondo continua ad essere nero. L’idea che esce fuori dal romanzo è quella  per cui  su certe esistenze sembra incombere una forza superiore, che guida e che ha già deciso il termine, senza possibilità o via di scampo. Le vite dei personaggi di “Le madri non dormono mai” sono quelle di persone a cui il destino sembra aver tagliato la gola.

Fonte immagine in evidenza: lorenzomarone.net

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