Esistono luoghi che non si trovano sulle mappe, ma abitano le pieghe della memoria. Crevacuore, il nuovo ed ultimo singolo di Barriera, è uno di questi: una destinazione immaginaria, sospesa tra passato e presente, dove finiscono le storie che non hanno più spazio nel tempo reale. Disponibile dall’11 luglio su tutte le piattaforme digitali per Il Piccio Records, il brano chiude il percorso dell’alter ego musicale di Valerio Casanova con un gesto insieme malinconico e liberatorio.
In bilico tra la delicatezza analogica di una lettera scritta a mano e l’estetica radicale di una produzione elettronica firmata mofw, Crevacuore è un addio che si fa rito, una canzone costruita su immagini ambigue e una dolce contraddizione sonora. Il titolo, tratto da una lettera di Cesare Pavese, suggerisce un sentimento estremo: quello dell’amore che si frantuma, lasciando dietro di sé soltanto tracce, parole e ferite.
Con questo singolo, Barriera archivia un decennio di musica, introspezione e romanticismo postmoderno, restituendo al pubblico una confessione sincera, scritta con la mano tremante e la voce immersa in glitch e delay per dirsi addio davvero.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’artista che ci ha regalato questa esperienza sentimentale unica e travolgente.
Intervista a Barriera
Crevacuore segna l’ultimo atto di Barriera. Cosa ti ha spinto a chiudere proprio con questo brano, e cosa rappresenta per te questo epilogo?
C’è una parte di me, quella parte che in questi anni ho chiamato Barriera, a cui dovevo dire addio. Per me ogni addio è complicato, ma questo più di tutti. Ho pensato che non potessi sopprimere quella parte, e che l’epilogo più giusto per lei sarebbe stato lasciarla vagare in un universo alternativo, in attesa di una persona che non arriverà mai sulla strada di Crevacuore. Ho scritto questa canzone nel periodo in cui ho lavorato a Olodramma, il mio disco. Era completamente fuori da quell’immaginario digitale, perché è una canzone che parla di lettere d’amore, e della potenza del segno grafico, analogico. Era perfetta per raccontare la sepoltura di ciò che sono stato negli ultimi dieci anni.
Hai descritto “Crevacuore” come un “luogo misterioso dove vanno le storie che devono finire”. Che relazione c’è tra questo concetto e il tuo modo di vivere o raccontare l’amore nelle canzoni?
Con le mie canzoni ho provato a raccontare una dimensione quasi esistenziale dell’amore. L’amore che influenza le nostre scelte, plasma la nostra identità, ci fa per quelli e quelle che siamo. Un’esperienza d’amore così totalizzante non può finire, e quando viene messa da parte ha bisogno di un posto dove riposare. “Una casa di riposo per gli amori finiti” potrebbe essere questa una descrizione di Crevacuore.
Il brano si muove tra analogico e digitale, tra lettere d’amore e glitch elettronici. In che modo convivono questi due mondi nella tua scrittura e produzione musicale?
In questo caso ho scelto volutamente di calcare i due estremi, di farli quasi scontrare. Ho scritto questa canzone al pianoforte, ed era una canzone a lume di candela, che profumava di carta nuova. Però mi piaceva l’idea di una contraddizione forte tra il testo e la produzione, perché mi dava l’idea di qualcosa di irrisolto. Era anche da un po’ che avevo voglia di lavorare con mofw, che alla fine (yeah) ha curato la produzione del brano. Sono molto contento di questo cyborg che canta di tulipani e di Marguerite Duras mentre gira per le mappe di Google.
Hai citato una struggente lettera di Pavese come ispirazione per il titolo. Che rapporto hai con la scrittura epistolare e con la memoria in senso più ampio?
Io ho una pessima grafia, quindi odio scrivere a mano. Ho scritto tantissime lettere d’amore al computer, e ogni tanto le vedo riemergere dai miei hard disk. È anche vero che da quando abbiamo un collegamento a internet eterno, siamo anche sempre in comunicazione con le persone che amiamo. Per questo le lettere d’amore per me hanno cambiato funzione, e sono diventate testimonianza. Scrivo su un foglio di carta per lasciare direttamente dei solchi sulla superficie che toccherai anche tu. I solchi sono come ferite, come il dolore che provo ai muscoli della mano stringendo la penna che non so tenere.
Nel tuo universo musicale si percepisce una forte tensione tra isolamento e connessione. Vivere “tra Roma e il cyberspazio” è solo una metafora o una vera condizione esistenziale?
Ci sono periodi e periodi, ma continuo a oscillare tra questi due mondi. Roma mi ha accolto con un carico di vita molto forte, mi ha costretto a vivere in connessione con nuove persone. Adesso è passato qualche anno, e mi accorgo che di tanto in tanto ho voglia di tornare nel luogo in cui mi sento più a casa di tutti: internet. Solo che internet non c’è più, e quindi pure quella è una ricerca esistenziale a suo modo.
Hai detto: “Forse io stesso mi sto trasformando in un’applicazione”. È una provocazione artistica o davvero senti che la tecnologia ti sta cambiando anche come autore e persona?
La tecnologia mi ha nettamente cambiato, ma non ha cambiato solo me. Siamo tutti completamente a pezzi mentre le piattaforme a forza di #adv giocano a badminton col nostro cervello. Crediamo che il metaverso sia stato un flop, quando in realtà non ci siamo accorti di esserci già dentro da anni.
Guardando indietro al percorso di Barriera, da “Abbandonarsi” a “Olodramma” fino a oggi, qual è la scoperta più importante che hai fatto su te stesso attraverso la musica?
Ho scoperto di avere un corpo.
Fonte immagine: ufficio stampa