Davide Shorty 2.0 da X Factor a Sanremo: l’intervista

Davide Shorty 2.0 da X Factor a Sanremo : l'intervista

Il 25/02/2021, in pieno clima sanremese, Davide Sciortino, in arte Davide Shorty, ha concesso un’intervista per Eroica Fenice (come già accaduto nel 2017), nonostante la valanga di impegni che inevitabilmente la kermesse più importante dell’anno trascina con sé. Al festival Davide ci arriva nella categoria “giovani”, ma con un background che pesa come un macigno.

Palermitano di nascita, nel 2010 si trasferisce a Londra dove inizia la sua carriera con i Retrospective for Love, iniziando da subito a mescolare correnti apparentemente divergenti come funk, rap e soul. Nel 2015 diviene famoso al grande pubblico per la sua partecipazione ad X Factor, riuscendo ad arrivare fino in finale e classificandosi al terzo posto.

Col suo giudice, Elio, il rapporto è sempre stato mantenuto, tanto che poco prima dell’incontro per l’intervista Davide si trovava proprio col suo ex giudice a prendere un caffè.

Nonostante ciò l’artista palermitano non è per nulla rimasto cristallizzato al 2015, anzi.

Nel 2017 pubblica “Straniero” per MacroBeats, il suo primo album; seguono “Terapia di gruppo” nel 2018 e “La Soluzione” nel 2019. Le sue ultime due fatiche sono state realizzate insieme al Funk Shui Project e il risultato è un meraviglioso mix di suoni, culture e radici differenti. Il tutto legato però meravigliosamente dal talento di uno straordinario musicista e compositore, prima ancora che artista.

Nel 2021 il grande salto. Partecipa a “Sanremo giovani” conquistando la finale grazie al brano “Regina”, il quale rappresenta in modo perfetto la sua cifra artistica.

L’intervista

Iniziamo con un salto nel passato: consiglieresti, data la tua esperienza, ad un giovane oggi di partecipare ad un talent?

Suggerirei ad una persona oggi di studiare quanto più possibile, di conoscere quante più persone possibile, di circondarsi di gente più brava o esperta.

 

Ti sei pentito della tua partecipazione?

Se me lo avessi chiesto due anni fa ti avrei risposto di si. Ad oggi non rinnego nulla di quello che ho fatto. Per fare un talent ci vuole un equipaggiamento psicologico molto forte, e soprattutto ci vuole la gavetta.  Passare dal niente al tutto può essere molto traumatico, e per me lo è stato. Nonostante avessi già anni di esperienza. Ho passato un periodo un po’ complicato dopo X Factor. Comunque, tornando alla domanda, dipende molto dal singolo individuo, ma personalmente non mi sentirei di consigliarlo. Dipende poi ovviamente dal punto della carriera al quale ti trovi.

Dato il tuo rapporto complicato col post X Factor, non hai paura del post Sanremo?

Assolutamente no perché ero in una situazione della mia vita molto diversa, io con me stesso non stavo bene dopo quella esperienza, ero molto confuso e l’ho vissuta male. Oggi  sto bene, nonostante sia un periodo difficile per tutti, e mi sento di dover essere grato per l’incredibile opportunità che abbiamo. Abbiamo non solo un privilegio ma anche una grande responsabilità e dobbiamo godere di tutto ciò col sorriso sulle labbra.

 

Qual è la routine di un cantante che sta per cantare a Sanremo?

Per ora sto meditando ogni giorno, faccio yoga, mi alleno, cucino, sto scribacchiando molte cose e studio nuovi pezzi. Faccio poi un sacco di interviste e mi prende un sacco di tempo perché adoro chiacchierare, me lo dicono in tanti che dovrei stringere, ma non ci posso fare niente, sono molto logorroico!. Alla veneranda età di 31 anni sto iniziando anche ad andare a letto presto, mi sto volendo bene.

 

Ho sempre trovato un po’ riduttivo cercare di identificarti in un ambito artistico ben definito.

Quando leggo titoli del tipo “il rapper Davide Shorty” quasi mi suona strano. A te che sensazione ti dà?

Guarda quando mi definiscono in questo modo non la sento come una cosa sbagliata. Io sono un rapper, così come sono un cantautore, un beat maker, a volte un DJ e un recorder engineer, a volte anche un essere umano e basta. Non mi fanno strane queste definizioni, ho imparato nella vita che inondare le persone di informazioni può essere controproducente.

 

Parliamo di “Regina”, il brano di Sanremo.

Da napoletano, in alcuni stacchi di percussioni e nella struttura ritmica non ho potuto fare a meno di notare qualcosa di Pino Daniele.

Assolutamente si ! Pino Daniele, Enzo Avitabile, Napoli Centrale fanno parte del mio background. Il soul italiano nasce a Napoli e da bambino mio padre mi faceva ascoltare tantissimo questa musica.

Quando ho scritto il pezzo i miei riferimenti erano Fabio Concato, Earth Wind & Fire, Bobby Caldwell, ma in generale ascolto tantissima musica.

 

Che rapporto hai col tuo dialetto?

Da poco è uscito un mio brano dove rappo in siciliano su un pezzo di Carolina Bubbico. Mi diverto molto ad usare il dialetto però lo facevo più da piccolo.  Inoltre ti anticipo che nel mio prossimo disco c’è un pezzo tutto cantato in dialetto. Uno dei miei idoli era Rosa Balistreri, una regina della canzone siciliana. Viveva tra l’altro nel palazzo di fronte al mio, quello di mia nonna. Non ho mai avuto la fortuna di conoscerla, anche perché penso sia morta quando io ero molto piccolo.

Uno dei primi pezzi che scrissi fu “U tagliamu stu pallune” in siciliano, per spiegare l’intimidazione primordiale, la prima che ti viene fatta quando sei piccolo e stai giocando. Si trattava però di una metafora per parlare di intimidazioni molto più pesanti e purtroppo radicate nel sud Italia in una città come Palermo.

 

Nel tuo primo disco, “Straniero”, è molto presente il riferimento alla tua Sicilia. Data la lunga esperienza di vita a Londra, cosa ti porteresti dall’Inghilterra, qualora decidessi di tornare a Palermo?

Magari Palermo per certi versi è ancora chiusa, paradossalmente, perché in realtà è un centro multiculturale meraviglioso e forse chi ci governa non sta riuscendo a valorizzare abbastanza il nostro patrimonio. Mi piacerebbe che ci fosse a Palermo più spirito di aggregazione, una cosa brutta che ho lasciato lì (nonostante ami alla follia la mia città) e mi piacerebbe non ritrovare è l’invidia. A Londra invece ho trovato un sacco di voglia di fare le cose insieme, di ascoltarsi, molta meno presunzione e più importanza alla professionalità del musicista. Un’altra cosa che mi porterei da Londra è la capacità di ascoltare i concerti in silenzio. Quest’estate ho fatto un concerto bellissimo a Tindari, nel teatro antico, e mentre stavo facendo un pezzo chitarra, voce e piano, in un momento di piena intimità un tipo in prima fila parlava ad altissima voce.

Gli ho dovuto chiedere di smetterla perché non potevo concentrarmi. Cantare per me è uno stato meditativo, io vado quasi in trance, non è mai una cosa meccanica, avere qualcuno davanti che parla e distinguo le sue parole è una cosa terrificante!

Quindi una cosa che mi porto da Londra è sicuramente questo, mi dispiace poi perché il tipo forse l’ho fatto sentire a disagio, mi sono sentito quasi in difetto io, ma la musica va rispettata. Mi piacerebbe che in Italia ci fosse più educazione alla musica e all’ascolto. Alcuni artisti come De Andrè, Concato, Guccini, dovrebbero essere studiati. Anche Pino Daniele per esempio per la sua capacità di decostruire la lingua, molto spesso modi di dire sono nati attraverso il cantautorato. C’è poca analisi su questo aspetto.

 

Preferiresti vivere in un’epoca differente o sei contento di far parte di questa?

Mi concentro su quello che ho al momento, sulla gratitudine del momento, sono contento del mio posto nel mondo come artista. Onestamente non ti posso esprimere una preferenza verso un altro periodo storico, se avessi una macchina del tempo mi piacerebbe dare un’occhiata, ma, come si dice in inglese,  “I go with the flow”

Credi che il ruolo dell’artista del 2020 sia troppo dipendente dall’immagine costruita tramite i social network?

Io penso che l’artista abbia sempre avuto a che fare con la propria immagine. Ti ripeto (avevamo affrontato già il discorso precedentemente ndr): il problema non è lo strumento, ma come viene utilizzato.

È da quando ci sono i mezzi audiovisivi che l’immagine è fondamentale.

Già dai tempi di Elvis, tant’è che agli afroamericani ancora non viene riconosciuta la paternità della musica pop di oggi. La gente che a quei tempi si poteva permettere i dischi era composta da bianchi, per questo veniva preferito un bianco per permettere loro di potersi rispecchiare. E questo è un meccanismo colonialista che mi fa schifo, mi piacerebbe vedere più diversità, un mondo con più meritocrazia, dove le cose si chiamano col loro nome.

Fonte Immagine: rollingstone.it

A proposito di Adriano Tranchino

Studente di Ingegneria Chimica di 24 anni

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