Rocco Rosignoli e il nuovo album Tutto si dimentica | Intervista

Rocco Rosignoli e il nuovo album Tutto si dimentica | Intervista

Tutto si dimentica è il nuovo disco autoprodotto del polistrumentista e cantautore parmigiano Rocco Rosignoli pubblicato lo scorso 26 Aprile. Ossessionato dalla memoria e dallo scorrere del tempo, Rocco Rosignoli fa della memoria il fil rouge del suo lavoro.

In brani come L’ululato e Sul selciato di Piazza Garibaldi questo tema assume una grande connotazione storica e pedagogica, non si lega soltanto all’inarrestabile scorrere del tempo, ma a quegli esempi di lotta per la libertà e i diritti che hanno caratterizzato l’esperienza partigiana della Resistenza.
Il racconto di Rosignoli diventa così un monito stimolante e infervorante, allo stesso tempo ispirante e leggero.

Emerge anche la componente poetica, ispirata e fortemente legata a quella grande tradizione cantautoriale costituita da Fabrizio De André, Leonard Cohen, Francesco Guccini e Claudio Lolli al quale dedica il brano Piccola canzone per me.

Il tutto viene rivestito da una veste musicale folk che conferisce ai temi trattati un tocco di maggior profondità e sapienza. Rocco Rosignoli mette a frutto tutta la sua conoscenza musicale e strumentale inserendo nell’album moltissimi strumenti: dalla chitarra acustica al violino, dalla fisarmonica all’armonium, dal bouzouki al mandolino, passando anche per l’armonica a bocca, il pianoforte e il basso elettrico.

Oltre ad essere un polistrumentista, Rocco Rosignoli è anche uno scrittore e coltiva molteplici interessi: è autore di due raccolte di poesie;  dirige il coro di canto popolare “OltreCoro”;  ha ideato alcuni particolari format musicali monografici chiamati “Lezioni-concerto”;  ed è anche curatore del laboratorio “Shir” presso il Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna.

Di questo e di tanto altro ancora abbiamo avuto possibilità di parlare con il diretto interessato.

Intervista a Rocco Rosignoli

Suoni la chitarra, il violino, il basso, il bouzouki, il pianoforte, la fisarmonica, l’armonica, l’harmonium indiano e il mandolino. Raccontaci un po’ della tua carriera di musicista, come hai imparato a suonare tutti questi strumenti?

Ho iniziato con la chitarra, a 11 anni. C’era questa vecchia chitarra classica in casa e ho voluto tirarla giù dal muro a cui era appesa da anni e provare a suonarla. Mia madre ha voluto fare le cose per bene e mi ha iscritto a una scuola di musica. Mi hanno dato per due anni le basi della chitarra classica. Alla fine del secondo anno mi sono stancato perché a me interessava suonare le canzoni e non fare degli esercizi.
Mi sono comprato un prontuario degli accordi e ho cominciato a studiare da solo le canzoni che mi piacevano. Col tempo però ho capito che le basi di chitarra classica che avevo mi rendevano molto indipendente nello studio e mi davano una velocità di apprendimento che altri miei coetanei autodidatti non avevano. E dunque ho ricominciato a prendere lezioni.

L’armonica faceva parte dell’armamentario di chi, come me, amava Bob Dylan. Anche quella l’ho studiata con passione. A vent’anni poi ho dato sfogo al desiderio di studiare il violino: è certamente lo strumento che amo di più, suonarlo per me è una lotta costante e richiede tantissimo studio.
Il mandolino si accorda come il violino e ha una tecnica simile a quella della chitarra, quindi prenderlo in mano è stato un passaggio quasi automatico, così come per il bouzouki greco. Tra l’altro, il bouzouki che suono ancora oggi me lo costruì mio zio, Nasario Rosignoli: è uno strumento unico e che ha un forte valore affettivo. Gli strumenti a tastiera, invece, non si può dire che li suoni: li uso piegandoli ai miei scopi!

Non ho tecnica pianistica, ma l’uso del piano mi è stato necessario per lo studio dell’armonia, che ho coltivato a lungo, dunque, sul pianoforte in qualche maniera ho dovuto sempre mettere le mani. Fisarmonica e armonium mi piacciono un sacco e li suono con grande passione, ma non ne ho una conoscenza tecnica paragonabile a quella che ho sugli strumenti a corda. Il loro suono però è magnifico e del tutto diverso da quello che posso ottenere da una chitarra, da uno strumento a plettro, anche da un violino. Li ho utilizzati per tessere il suono di questo disco, e probabilmente sono stati la chiave di volta “sonora” di tutto questo progetto.

Rocco Rosignoli, Tutto si dimentica ruota intorno il concetto di memoria, cosa rappresenta per te?

Il concetto di memoria è centrale in questo disco, ma anche in tutta la mia produzione. Il tempo e la memoria sono due delle ossessioni che mi porto appresso da sempre – ma credo che sia così per gli esseri umani in generale!
La memoria è una delle cose che ci distinguono dagli animali. Loro vivono costantemente nel “qui e ora”. Gli esseri umani invece vivono proiettati nel futuro e costruendo la loro identità sul passato. Non solo sul proprio, anche su quello collettivo.

La memoria collettiva però è fortemente manipolabile, e rischia di essere confusa, inquinata, riscritta. E credo che questo sia un grosso problema nella società contemporanea, in quella italiana, ma non solo. La storia non si ripete, checché ne dicano i luoghi comuni; ma vedo che certe dinamiche di oggi sono simili a quelle che hanno portato alle conseguenze più tragiche nella storia dell’umanità durante il ‘900.

Parlaci del Coro che dirigi

Si chiama “OltreCoro”, ed è un coro che si dedica al repertorio del canto popolare, di lavoro, di lotta e resistenza. Un repertorio che all’argomento “memoria” è legato in maniera strettissima. È un coro polifonico, composto da una dozzina di persone; partecipiamo a parecchie iniziative e prediligiamo quelle di carattere militante. Io mi occupo degli arrangiamenti, della preparazione musicale e della direzione vera e propria.

Cantiamo senza strumenti, anche se alle volte imbraccio la chitarra per dare una mano alle sezioni meno numerose… l’ultima volta che abbiamo cantato in pubblico è stato quando a Ghiare di Berceto la biblioteca autogestita aperta dagli anarchici nella sala d’aspetto della stazione è stata intitolata a Lorenzo “Tekosher” Orsetti, il combattente italiano caduto in Siria lo scorso marzo combattendo contro l’Isis. Un vero partigiano dei nostri giorni e col coro abbiamo voluto dedicargli la canzone “Per i morti di Reggio Emilia”.

Cosa puoi dirci invece delle tue lezioni-concerto?

Quella delle lezioni-concerto è una modalità di esibizione che porto avanti ormai da molti anni. Si tratta di percorsi monografici, su un autore o su un argomento, che prevedono una bella parte di performance, ma anche una forte componente divulgativa. La lezione-concerto su Jacques Brel, per esempio, ne raccontava la vita e la carriera, mettendo in scena i suoi pezzi cantati da me, ma anche video d’epoca dei suoi concerti e apparizioni televisive (Brel ne ha lasciati un sacco).

Li propongo a tutti: associazioni culturali, teatri, locali, scuole… nelle scuole, in generale, sono molto più richiesti i percorsi di tipo storico. Nei locali funzionano molto bene quelli dedicati ai singoli autori, da Leonard Cohen a Guccini.

Hai anche pubblicato un libro “Zeppelin- prosimetro anacronistico” e la raccolta di poesie “Professione confusa”, cosa puoi dirci a riguardo?

“Zeppelin” uscì nel lontano 2009, come volumetto stampato in proprio. Un esperimento che non pensavo di ripetere. Poi, nell’estate del 2018, misi un po’ d’ordine nelle cose scritte negli ultimi tre-quattro anni e mi resi conto che avevo del materiale abbastanza consistente e coerente per farne una raccolta di poesie. L’amico e maestro cantautore Max Manfredi (di lui De André disse: “È il più bravo di tutti”) accettò di scrivermi la prefazione.

L’Editrice Il Foglio di Piombino accettò la mia proposta in un tempo record e senza chiedermi un quattrino. È una silloge di poesie che mostra un altro lato di ciò che faccio. Ho notato che, paradossalmente, quando faccio canzoni tendo a essere più cupo, serio, quando scrivo poesie invece ricorro spesso a un tono scanzonato, a volte addirittura ridanciano! Il libro sta funzionando, ne ho vendute tantissime copie. Avere tanti concerti offre tante occasioni.

In “Sul selciato di Piazza Garibaldi”, racconti gli eventi che portarono all’uccisione di sette anti-fascisti in Piazza Garibaldi a Parma. Che valore deve e può costituire l’antifascismo al nostro giorno?

Il brano che citi è una bonus track, uscì come singolo il primo settembre 2018, settantaquattresimo anniversario di quell’eccidio. L’antifascismo è il terreno comune su cui le forze dell’Italia del dopoguerra decidono di edificare una repubblica. È uno stato che ha i suoi difetti, e sicuramente non è quello ideale, quantomeno dal mio punto di vista. D’altra parte sono un internazionalista e nessuna entità statale rappresenterebbe mai il modello di società a cui aspiro. Ma anche questo stato ha i suoi lati positivi e le sue radici sono proprio nella comune avversione al fascismo di tutte le forze che parteciparono alla Resistenza.

L’antifascismo non dovrebbe nemmeno essere un valore, ma semplicemente il naturale orizzonte entro il quale l’attuale ordinamento democratico svolge le sue funzioni.

Purtroppo non è così, e ancora oggi molte sono le forze che si ispirano direttamente all’eredità del fascismo, o che mascherano la propria natura reazionaria e razzista con discorsi che fanno falsamente appello al senso pratico, ma che in realtà celano malamente una natura discriminatoria, contraria ai principi di libertà e uguaglianza di cui la nostra società occidentale sostiene di essere erede. Quindi l’antifascismo prima ancora che un valore è un dovere di ciascuno.

Dal 2017 curi il laboratorio Shir presso il Museo Ebraico Fausto Levi di Soragna, in cosa consiste?

“Shir” è una delle tante parole ebraiche per dire “canto”. Io coltivo da molti anni una passione bizzarra, quella per la lingua e la cultura ebraica. Io e la mia compagna ci siamo conosciuti proprio a un corso di ebraico biblico, e lo abbiamo approfondito insieme studiandolo per anni a Milano, nei corsi della Libreria Claudiana, tenuti dalla professoressa Sara Ferrari, docente alla Statale.

Questa passione insolita mi ha portato a collaborare con il Museo Ebraico Fausto Levi, che sorge in un edificio seicentesco che contiene anche la sinagoga. Nei locali del museo, alle scolaresche in visita, proponiamo anche questo laboratorio musicale, una vera e propria lezione concerto, che viaggia nel tempo e nello spazio mostrando i tratti di un’identità musicale e culturale ricchissima, unica e poco conosciuta. I ragazzi l’hanno sempre apprezzato molto: conoscere strumenti insoliti come l’oud arabo e il violino li emoziona tantissimo, e ancor di più sentirli suonare.

Fonte immagine: ufficio stampa di Rocco Rosignoli, Macramè trame comunicative

A proposito di Angelo Baldini

Sono nato a Napoli nel 1996. Credo in poche cose: in Pif, in Isaac Asimov, in Gigione, nella calma e nella pazienza di mia nonna Teresa.

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