Lampi sulla Scena: Roberto D’Avascio tra Artaud e Kane

Lampi sulla Scena: Roberto D'Avascio tra Artaud e Kane

Lampi sulla scena, a cura di Roberto D’Avascio per Arci Movie, apre la tredicesima edizione del Napoli Teatro Festival, la quarta diretta da Ruggero Cappuccio, realizzata con il sostegno della Regione Campania e organizzata dalla Fondazione Campania dei Festival, guidata da Alessandro Barbano.

Mentre a Palazzo Fondi il Festival iniziava nel segno del legame che unisce la drammaturgia catalana alla lingua napoletana e al Real Bosco di Capodimonte nel segno della musica travolgente dei Foja, il Cortile delle carrozze di Palazzo Reale ha ospitato per la sezione Progetti Speciali “Lampi sulla Scena”: due lezioni di storia del teatro a cura di Roberto D’Avascio, docente di Storia del Teatro presso l’Università degli Studi di Salerno e di Letteratura inglese presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”.

Roberto D’Avascio: Da Antonin Artaud a Sarah Kane

Un percorso umano tra le vicende personali e artistiche di due figure del mondo drammatico che hanno segnato la scena internazionale del teatro del Novecento: Antonin Artaud e Sarah Kane. Un narratore e un attore dialogano tra loro focalizzandosi sui momenti decisivi per la storia del teatro europeo.

Un docente, Roberto D’Avascio, che con metodo didattico, avvolge l’attenzione dello spettatore in un percorso di due vite tormentate da demoni interiori e dal torchio del pregiudizio della società. Una linea rossa lega la crudeltà del teatro di Antonin Artaud alla scena rabbiosa della giovane Sarah Kane.

Lampi sulla scena: prima lezione su Antonin Artaud

L’appuntamento del 1 luglio è stato dedicato alla complessa personalità di Antonin Artaud, portato sulla scena dall’attore Gianni Sallustro. Colpito già a 4 anni dall’esperienza della meningite, che si vuole considerare la causa dei suoi problemi mentali, vive in maniera tormentata il rapporto fra malattia e sensibilità artistica, topos radicato nella cultura occidentale.

Roberto D’Avascio, in solo un’ora e mezza, ci conduce nel contesto storico politico di Artaud, tra il rapporto con Parigi e i Surrealisti, l’internamento, la possessione, il rapporto con le droghe e l’incontro con il teatro balinese nel 1931 in occasione di una Esposizione coloniale, dal quale trasse parecchi spunti per i suo “Teatro della crudeltà”, una forma di teatro, descritta nella sua più importante opera Il teatro e il suo doppio. Per crudeltà non si intende sadismo, o l’attitudine a causare dolore, ma lo stimolo al sacrificio di qualunque elemento non concordante al fine della rappresentazione.

Artaud riteneva che il testo avesse finito con l’esercitare una tirannia sullo spettacolo e in sua vece spingeva per un teatro integrale, che comprendesse e mettesse sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, luce e parola.

Il teatro è prima di tutto rituale e magico“, scriveva Artaud, “non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile“.

Artaud, conclude Roberto D’Avascio, invecchiò rapidamente, dando seri segni di squilibrio, oppure per tali furono prese le sue stranezze, i suoi dolori e finì in sanatori dove non gli lesinarono elettrochoc, impietosamente. Morì male, di un male terribile, di un cancro al colon, ma fino all’ultimo fu lucido e fino all’ultimo denunciò la pochezza intellettuale dell’uomo creato dal materialismo, con scritti di rarissima efficacia razionale e sentimentale.

Lampi sulla scena: seconda lezione su Sarah Kane

Invece, l’appuntamento del 2 luglio è stato dedicato alla perturbante figura di Sarah Kane, portata sul palco del Napoli Teatro Festival da Maria Teresa Panariello.

Roberto D’Avascio ci conduce alla scoperta della personalità complessa di una giovane autrice, divenuta in pochi anni una delle voci più irriverenti del teatro del secondo Novecento, definita, ad oggi, uno dei volti dell’ “In-Yer-Theatre”, un tipo di teatro che rompe gli schemi e le costruzioni sociali lontano dal classico naturalismo. Questa specie di “nuova onda teatrale” si inserisce in un particolare momento storico in cui la fascinazione verso la malattia mentale, il decadimento fisico e psicologico e le dipendenze era piuttosto avvertita, proprio in termini di entertainment.

Sarah Kane inserisce in questo panorama la sua opera con un coraggio, una forza e un’espressività singolari: la sua scrittura non si limita a rivelare un malessere per uno scopo terapeutico, bensì è essa stessa il mezzo (e il fine) attraverso cui l’autrice intende portare a galla i propri incubi. Tuttavia, quando a 23 anni Sarah Kane scrive Dannati (Blasted), affrontando e inscenando temi come la violenza, il cannibalismo, la guerra, lo stupro, viene etichettata dall’opinione pubblica come una malata di mente e la sua opera definita in un primo momento dalla critica come un “disgustoso banchetto di sporcizia“.

Il viaggio nella malattia mentale per Sarah Kane continua con Purificati (Cleansed), il cui debutto è nel 1998. Il tema cardine di quest’opera si modella su una frase rimasta indelebile nella mente della scrittrice, tratta da Roland Barthes: “essere innamorati è come essere ad Auschwitz”. L’olocausto e la purificazione, in questo caso, sono strettamente correlati nella mente della Kane: come una pioggia che lava via ogni malessere, la pièce è ambientata in un’università che ha tutte le fattezze di un campo di concentramento, nel quale si tenta di mondare la schizofrenia dell’atto amoroso. Come un poeta maledetto, la Kane si crea l’immortalità tramite l’irriverenza e la capacità di scardinare modelli, stili e registri. Crea così un’apocalisse, una devastazione totale che investe ogni personaggio presente sulla scena.

Passando per la penultima tra i lavori della Kane, Febbre (Crave), un dialogo tra mille volti senza nome che urlano il loro bisogno di amore e la loro incapacità di stare al mondo, Roberto D’Avascio termina la sua lezione con la Psicosi delle 4.48, l’ultimo grido disperato prima di commettere il suicidio, senza dubbio la drammaturgia più intensa e forte della sua intera raccolta. Per la prima, e unica, volta l’autrice britannica scrive un intero monologo, senza pause né interruzioni, rivolto a destinatari diversi. La sua persona non è più mediata da volti e nomi, né da lettere o ambienti specifici, bensì la narrazione è quasi autobiografica: il dolore per un amore perduto, la violenza dei farmaci per combattere la malattia, l’assuefazione, l’ossessione, il pensiero suicida, le dipendenze, l’amore non corrisposto. Conscia di dove la porteranno queste ultime pagine, la drammaturga inglese si fa un processo di accuse e colpe: come in un’arringa ben studiata, Sarah Kane passa in rassegna ogni suo gesto e percezione, se ne carica totalmente e lo interiorizza, assecondando i suoi incubi, come se sapesse che il suo tempo per stare al mondo sta velocemente terminando. Difatti Sarah Kane viene trovata morta nel bagno del King’s College Hospital, a Londra, impiccata coi lacci delle sue scarpe.

Immagine: www.arcimovie.it

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