Marianna Iozzino alle Scalze con The Birds | Intervista

Marianna Iozzino in mostra alle Scalze

Marianna Iozzino sarà in mostra presso la chiesa delle Scalze dall’8 al 15 giugno con The Birds. Il progetto della mostra nasce nell’ambito della residenza artistica di Marianna Iozzino a Napoli, come ospite al Giardino Liberato di Materdei.

L’inaugurazione della mostra The Birds si terrà il giorno 8 giugno alle ore 18:00, con la partecipazione della Jam Clandestina del Giardino Liberato, che accompagnerà musicalmente quadri e sagome affinché le note possano svegliarli dall’immobilità, tirarli fuori dalla cornice e indurli al movimento. La scelta di questa particolare apertura non è casuale: Marianna Iozzino, forse, conosce la natura delle proprie opere e sa che bene si prestano alla danza.

Marianna Iozzino, in questa seconda residenza napoletana, ha sperimentato la possibilità di lavorare a dei quadri grandi e di immaginare le opere in contesti inusuali, come la grande navata della chiesa delle Scalze. Questo esperimento ha contribuito alla genesi di forme e colori nuovi.

Così prende vita The Birds, il quadro posizionato a sinistra rispetto all’entrata, che nasce sotto forma di luce rarefatta, pronto a ricevere i barlumi di sole che irradiano quella parte della chiesa in tarda mattinata. L’artista non aveva previsto di realizzare un quadro come The Birds. Si aspettava di dipingere nuovamente un quadro colorato e dal gusto barocco, come Carosello delle Ore – quello della sua ultima mostra alla Biblioteca Nazionale di Napoli – e che, alle Scalze, sarà posto sull’altare centrale.

The Birds di Marianna Iozzino è espressione di un desiderio di leggerezza, di lievità. Ma quando sei è in procinto di decollare, tutti i venti paiono remarti contro, le correnti diventano un ostacolo, e non si può far altro che opporsi, stringere i denti – o il pennello – o cedere, lasciando che la tempesta ti travolga, che sia il pennello a guidare te.

Il quadro si posiziona a metà di questa docile e tormentata lotta: non si è ancora scelto se lasciarsi andare o meno, le ali si trovano in quell’attimo fuggevole di salita sospesa. È il momento immediatamente precedente alla resa.

Quando, infine, Marianna Iozzino ha ritrovato la sua corrente, la grande tela dispiegata lungo la navata ha visto la luce, la nave dell’artista è salpata, l’opera è stata generata e ora farà il suo corso tra le gente.

L’enorme tela di circa quindici metri – che Marianna Iozzino si è trasportata in treno da Milano, e che, insieme agli altri due quadri, è parte integrante della mostra – è nata di getto, disegnata, colorata e tagliata con quell’enfasi e quell’entusiasmo dell’infanzia. La tela ha risposto a un bisogno dell’artista-bambina, che dentro di sé, al contempo, lo rinnegava e lo nutriva. La sua realizzazione è stata pura libertà.

Marianna Iozzino tra fissità e infinito, miopia e intensità di visione. Un’artista molteplice in grado di tenere gli occhi ben aperti anche tra le nuvole. Le sue tele sono come tessuti di tempo, finestre sull’avvenire

Marianna Iozzino, nata a Nocera Inferiore nel 1988, vive e lavora a Varese, ma quest’anno è stata letteralmente adottata dalla città di Napoli, alla quale sta donando tutto il suo impeto creativo e la quale, a sua volta, in un vortice vicendevolmente passionale e irrefrenabile, le appare sotto forma di suggestioni e visioni immaginative.

Marianno Iozzino ci ha concesso una lunga chiacchierata tra i libri accatastati e il tavolo in legno della piccola e magica Biblioteca del Giardino Liberato.

Intervista a Marianna Iozzino

Provando a tradurre in parole il tuo processo creativo spesso utilizzi il termine visione. Mi vengono in mente le rêveries, che sono alla base di tutta la produzione filmica (e non solo) di un’artista eclettica come Agnès Varda. Lei partiva dall’osservazione del quotidiano e la sua mente si perdeva in fantasticherie, che poi diventavano protagoniste delle sue opere. Quali sono le tue rivelazioni? Da cosa partono? 

Questo processo ancora non lo comprendo bene. Anni fa erano le persone a colpirmi e, infatti, facevo molti ritratti, adesso le immagini le cerco scavandomi dentro, quindi provo a non essere eccessivamente condizionata dall’esterno, però, devo e voglio assolutamente stare nel mondo esterno, tra le persone, perché è qui che accumulo ricordi, emozioni, sensazioni. Forse, sono queste le mie rivelazioni. 

Si tratta, quindi, di reazioni a ciò che vivi. Ed emergono inaspettatamente?

Sì, e mi rendo conto di essere estremamente sensibile a qualsiasi cosa, al punto che, a volte, devo capire come schermarmi, quali immagini vedere e quali no, non posso vederle tutte, a volte abbiamo tante immagini brutte..

Si può dire che lo studio sia uno spazio in cui ti muovi liberamente? Assumi le posizioni per te più comode? Potrebbe essere che il tuo modo di stare in questo spazio, per te protetto, somiglia un po’ a come vorresti muoverti nel mondo, tra le cose? Come se si trattasse di uno spazio di libero movimento..

Qui a Napoli sì, a Varese è più difficile perché lo studio è piccolo, mi muovo stando seduta, si può entrare solo a piedi nudi. Per me lo studio deve essere uno spazio di libertà, tranquillo, lontano da tutte le influenze esterne. A Varese è l’unico punto della casa in cui la gente deve entrare senza scarpe, ci sono dei meccanismi mentali che innesco nello studio, e quando arrivano cose esterne che mi turbano, mi turbano veramente, un po’ come se qualcosa mi sfuggisse, il mio spazio vitale.

Invece, cambiando argomento, mi interessava sapere questa cosa che dipingevi seduta sulla tela a terra. Me ne parli?

Ho portato questa tela da Milano, che mi ha regalato un amico artista ed è lunga quindici metri. Non sapevo cosa sarebbe diventata, ma avevo l’idea di fare delle sagome, di ritagliarla. La prima settimana, non avendo lo studio, ho lavorato sulla tela più piccola, e quando mi hanno dato lo studio ho installato questa, appesa sulla parete e distesa per buona parte a terra. Il primo giorno, presa da questo impeto, ho iniziato a disegnare queste sagome, che si protraggono fino a terra, e ho potuto sedermi, disegnare e colorare anche sul pavimento. Pure nel mio studio a Varese non mi piace stare al cavalletto, mi piace dipingere, disegnare a terra, avere tutti i colori sparsi attorno a me. Mi piace fare un po’ come i bambini, che distribuiscono tutte le cose. Con questa tela è stato così: camminavo a piedi scalzi e poi mi alzavo, e passavo a lavorare all’altra tela di due metri.

Ti capita di provare delle forme di liberazione dal dolore quando dipingi o ritagli le tue sagome?

Le forme di liberazione sono con il colore. Cerco proprio il colore che mi fa stare meglio, i colori che prediligo sono, infatti, i colori caldi, anche se ultimamente arrivano pure i colori freddi, ad esempio il verde, mentre io cerco, invece, di allontanarli. Il colore è un elemento positivo, come la linea. Ultimamente faccio questi mix tra disegni e campiture di colore. Mentre dipingo uso il carboncino e la matita sopra la pittura: ecco lì c’è un’azione di rottura. Al contrario, con il colore cerco la pace, la luce.

Per quanto riguarda le sagome non saprei rispondere, perché per me le sagome sono una cosa nuova, le prime che ho realizzato erano dei fregi sotto forma di corpi e nascevano sicuramente da un dolore. A un certo punto mi sono ritrovata con questi pezzi di tela e a me fa male tagliare la tela, perché ho pochi materiali e cerco di non sprecarli, però questi erano già scarti, quindi mi sono detta «Vabbè tagliamoli!». Poi, pian piano, è diventata una necessità tagliare la tela, non mi calma come l’utilizzo del colore, ma si può dire che è un po’ il mio modo di uscire dai taccuini, fare uscire le figure dalla pagina. Io vorrei che quei disegni venissero fuori, ma nel tempo ho capito che, per farlo, non devo semplicemente ingrandire i disegni, devo essere Io nel grande. Fidarmi e andare fino in fondo nel grande è difficile, nel piccolo so come si fa.

Il taccuino è una forma diaristica di scrittura attraverso il disegno, mentre avere una grande tela a disposizione, forse, dà l’idea di sentirsi esposti. Il taccuino può essere spiato da “pochi eletti”, al contrario la tela si presta a un’esibizione. La prestazione è uno dei grandi ostacoli alla libertà creativa. Quando lavori a una tua opera prendi in considerazione la critica e il gusto dell’osservatore o segui una tua necessità, una prospettiva personale?

Devo assolutamente cercare di non farlo, perché di mio sono portata a farlo. Qualsiasi piccolezza, qualsiasi sguardo, qualsiasi opinione o giudizio mi influenzano. In passato molto di più, oggi, invece, cerco di prendere meno in considerazione quello che pensano gli altri, ma inevitabilmente influisce sul mio lavoro. Anche un giudizio positivo è rilevante, perché mi fa pensare di essere arrivata, e questo non è bene. Credo che la genesi di un’opera debba essere il più intima possibile.

Poiché senti questa forte empatia con gli altri e per te le persone contano, pensi che la realizzazione della tua opera sia più legata a un tentativo di riproducibilità della realtà, così come la vedi e la recepisci, o a un modo per crearti un’alternativa a questa realtà?

Penso che sia per crearCI una realtà. Si, per me contano le persone, però negli anni sono diventata più selettiva, scelgo le persone di cui circondarmi, e poi si, ovviamente, quelle per me sono tutte importanti. Qui a Napoli siete tanti e siete tutti importarti. Non è che quando dipingo penso a voi singolarmente, però penso a creare un’alternativa per noi tutti. Non per forza un’alternativa reale, un luogo, una realtà futura, ma anche un’alternativa che ci può essere adesso: il quadro è sempre una finestra su qualcos’altro, che magari non si afferra, ma non importa.

Penso, a volte, alle nuvole e al sole che si nasconde dietro le nuvole, a quegli spiragli che si riflettono sui bordi delle nuvole e, a volte, penso «cavolo, andare lì sarebbe bellissimo!». Immagino campi sterminati di nuvole con la luce, ma poi il tempo di proiettarmi su e non mi piace più. Mi piace più immaginarlo quel mondo, anziché vedermi in quel mondo. Forse, il quadro è sempre quella finestra là, che mi consente di vedere quello scenario, poi non so se dentro effettivamente c’è.

E poi cambio sempre: in questi anni che dipingo, sono passata dal ritratto al disegno realistico sul taccuino, adesso ai disegni onirici. Ora i miei quadri sono quasi astratti, prima erano figurativi. Spesso mi hanno criticato per questo mio continuo cambiamento.

Per me questa non è una critica negativa, per me gli artisti più interessanti sono quelli che cambiano sempre: strumenti, modalità di espressione, obiettivi..

A me piace vivere tante vite, anche nell’arte, pure se a volte va a finire che ti dicono che eri meglio prima o tu stessa pensi di essere stata migliore in passato.

Questo, però, è un rischio che bisogna correre. Sarebbe troppo comodo essere sempre uguali, fare sempre la stessa cosa. Non ci sarebbe crescita.

E a proposito di crescita…secondo te c’è qualcosa della tua infanzia nei tuoi quadri?

Di sicuro i materiali, i pastelli a cera. Ricordo un cartone che guardavo da piccola in cui c’era questa bambina che disegnava a terra con i pastelli a cera. I pastelli a cera mi hanno sempre dato l’idea di casa, da quando li ho ritrovati nell’ambito del disegno artistico – da 5-6 anni ormai li uso regolarmente – mi danno tranquillità, mi ricordano l’infanzia. Poi mi sono accorta di ragionare molto sulle atmosfere. Da piccola mi sono spostata tantissimo, ho cambiato diverse case, ma ricordo bene la casa a sud dei nonni, che mi ha sempre rievocato un alone giallo di tranquillità. Da bambina facevo dei disegni in cui ricostruivo quest’atmosfera, colorando tutto lo sfondo a matita, con il giallo. Ultimamente sto usando tantissimo giallo, tubetti e tubetti di giallo. Quindi si, in questo ultimo quadro c’è qualcosa dell’infanzia.

Nel processo creativo ti arriva l’immagine e trovi il modo per esprimerla o spontaneamente la esprimi e sai che è lei, che è arrivata?

Entrambe le cose: l’anno scorso vedevo le immagini e le tiravo fuori, adesso invece sono cieca davanti al quadro, non lo vedo, forse lo vedrò dopo, o non lo vedrò più.

Forse questa cecità potenzia la visione..

Io sono miope, ho meno dieci di miopia. A volte ci gioco sul fatto di non vedere. Prima ci giocavo, mi toglievo gli occhiali e cercavo di non vedere. Forse è per questo che mi piace molto la carta carbone. Sempre da piccola, disegnavo senza vedere cosa stavo realizzando e venivano fuori dei disegni inaspettati. Anche adesso, quando faccio dei disegni totalmente liberi, sento di avere questo potere che non ho quando vedo.

Marianna Iozzino, quando ti sei liberata dal giudizio? Quando hai smesso di inseguire una soluzione ed hai, invece, assecondato la sensazione?

Del giudizio non mi sono mai liberata. Mi ricordo una delle prime mostre, lì ho cominciato a far capire agli altri chi ero io, cosa stavo facendo. Io ho sempre disegnato, seguendo un po’ la mia natura, che all’inizio era quella di fare figure inquietanti. Tutti, a partire da mia madre e mia zia, mi hanno sempre chiesto che cos’erano, di cosa si trattava, se erano mostri. La mia prima mostra si chiamava proprio “Non chiamateli mostri”, ed era bello, provocatorio, soprattutto, era una risposta a una mia zia che mi disse: «Perché disegni figure inquietanti? Già il mondo lo è». Probabilmente facevo cose più inquietanti prima, adesso che il mondo sta diventando davvero inquietante, io sono, invece, più rarefatta. Quindi non penso che la mia opera rappresenti il mondo com’è adesso.

Interessante il fatto che la tua prima mostra si chiamasse Non chiamateli mostri e quest’ultima, invece, The birds. Vuol dire che ti sei liberata? Sei uscita dall’abisso?

L’idea di questo titolo “Gli uccelli” fatico ancora ad accettarla, come il quadro, non so se va bene. Faccio così fatica ad accettare questa leggerezza, non so perché..

Perché la leggerezza è come la semplicità. Fa paura quando le cose ci appaiono poco ragionate, e sanno di cose leggere, e quindi ci attraggono. Ma, allo stesso tempo, succede che ci spaventiamo del fatto che possano sembrare mediocri. Però, forse, è un pregiudizio sociale: l’idea che le cose debbano essere per forza complesse per toccare la meraviglia, quando invece la meraviglia è una cosa semplice. Il volo degli uccelli, ad esempio, è una delle cose più banali, di cui si accorge anche un bambino. Come si fa a riprodurre quella roba lì ed essere originale?

Ora mi fai venire in mente questa cosa della mediocrità. Il fatto che la leggerezza è una cosa semplice, io questa cosa qui la sento molto a livello del tempo, perché non riesco ad accettare un quadro fatto in poco tempo, soprattutto un quadro grande. Penso che un quadro grande abbia bisogno di un mese di lavoro, invece, a volte capita che sento di poterlo realizzare in due giorni, ma non riesco ad accettare questa cosa di me stessa. Questa brevità di me. Forse sovrappongo troppo, non lo so, però è davvero faticoso accettare di essere un attimo. Quadro grande, tempo grande. Quadro piccolo, poco tempo. Sono tutte meccaniche della mente, a volte ho questi blocchi. È da capire se davvero io sono questa cosa o no. Magari questo quadro poteva essere finito prima.

Forse Marianna Iozzino è entrambe le cose, a seconda delle circostanze. Ci si deve ascoltare, perché in alcuni momenti si ha bisogno di sentire il tempo, di farlo scorrere lentamente, in altri, uno ha necessità di delirare, di cogliere quegli attimi di follia, e poi passare il resto dei giorni a non fare niente. Il punto non è capire se è più giusto l’uno o l’altro, il punto è accettare di essere questo e quello. Non bisogna avere un’idea di sé, o almeno, un’idea precisa di sé.

Senti, tu ti sei chiusa tutte le uscite d’emergenza per poter fare l’artista? 

Diciamo che io come prima uscita d’emergenza mi sono chiusa questa e ho provato, invece, tutt’altro: ho fatto la restauratrice, la cameriera, la parcheggiatrice, ho provato ad avere una vita “normale”. La scelta di mollare tutto, alla fine, l’ho fatta in conseguenza a grandi eventi esterni: il licenziamento, il Covid, e quindi, da lì, ho detto: «Ok, vado e faccio, mi chiudo in casa e faccio!». E si è innescato questo processo, perché io ho sempre disegnato e dipinto, ma una cosa è farlo, un’altra è esserlo. Adesso non potrei più tornare indietro. Sceglierlo vuol dire esserlo totalmente. Avevo comunque costruito un ambiente tranquillo, “normale”: una casa, un po’ di soldi da parte. Non è stata una cosa totalmente audace. È stato più audace scegliere l’Accademia delle Belle Arti, dopo il liceo scientifico. I miei avrebbero voluto che facessi architettura e io sono andata contro tutti. Adesso si, è audace, non posso fare altro, e non posso neanche più farlo chiusa nel mio studio a Varese, perché Varese non è una città che ti offre stimoli, almeno a me, che ho bisogno di una vita cittadina.

Quindi, non potrei tornare più indietro e mi piace che ci sia la vita artistica attorno a me: il Giardino Liberato, Napoli. Qui è tutto a portata di mano, sembra audace, ma è più semplice. Sono sempre in bilico: ho fatto un mese senza casa, senza studio, con lo zaino. Però, in realtà, quando arrivo qui con lo zaino e il rotolo di tela, che mi trasporto in treno da Milano, e mi siedo un momento, come ieri al cineforum, mi dico: «basta questo per essere libera». Lì mi rendo conto che sono semplice e leggera.

Marianna Iozzino in mostra a Napoli alle Scalze

Fonte foto di copertina: Foto realizzata in studio 

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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