9 ottobre 1963: 60 anni dalla tragedia della diga del Vajont

la diga del vajont

La sera del 9 ottobre 1963, 60 anni come oggi, si verificava uno dei più gravi disastri ambientali passati alla storia: la tragedia della diga del Vajont.

Alle 22:39, infatti, un costone di roccia si staccò dal monte Toc, tra Belluno e Pordenone, finendo dritto nel bacino sottostante, che tracimando spazzò via interi centri abitati, tra cui il paesino di Longarone.

Il disastro provocò la morte di 1917 persone, tra cui 487 bambini.

Le premesse

La diga del Vajont era stata costruita ad opera della SADE, Società Adriatica di Elettricità, per creare un bacino idroelettrico che avrebbe alimentato una centrale in quella zona. L’idea era di sfruttare il corso dell’omonimo torrente, com’era già successo in passato, ma in modo più aggressivo e molto più remunerativo.

La diga del Vajont, infatti, stando ai progetti, avrebbe dovuto ricevere le acque del fiume Piave e di due affluenti, deviati dai loro corsi naturali e incanalati, attraverso un sistema di dighe minori e di tubazioni, in un grande invaso principale, costruito sopra la vallata del Vajont.

L’area fu sottoposta preventivamente a studi di carattere geologico ad opera di diversi studiosi, ma, sebbene fossero state già rilevate delle avvisaglie rispetto ad una possibile frana dai promontori soprastanti la diga, il progetto, iniziato nel 1929 dall’ingegnere Carlo Semenza e chiamato “Grande Vajont”, fu portato avanti ugualmente e terminato nel 1959.

L’opera portò non poco scompiglio perché, per la costruzione del bacino idroelettrico sulla vallata del Vajont, c’era bisogno di espropriare una porzione di territorio appartenente al comune sparso di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, che si trovava a cavallo della vallata: gli abitanti del comune provarono a protestare contro l’espropriazione dei territori, ma senza successo.

Nel 1960 si svolse il primo collaudo del bacino, a seguito del quale si intuì subito la natura pericolosa dell’area: infatti, si verificò una prima frana, per fortuna senza seri danni, che spinse i costruttori a dotare il bacino di una sorta di sistema di drenaggio che, nei piani, avrebbe dovuto limitare i danni che l’innalzamento e abbassamento del livello dell’acqua stava provocando al già instabile fianco della montagna.

I lavori continuarono imperterriti per altri tre anni, in mezzo ai quali era avvenuta la cessione del progetto dalla SADE alla neonata ENEL, di proprietà dello Stato; con successivi collaudi, sempre accompagnati da tremori e rischi di smottamento, oltre che da una lunga faglia che si aprì alle pendici del monte Toc, ma nessuno era preparato a quello che sarebbe successo qualche tempo dopo.

La tragedia

Il 9 ottobre del 1963, alle 22:39, un costone di roccia lungo 2 km, di oltre 270 metri cubi di roccia e terra, si staccò dal monte Toc e precipitò dritto nel lago del Vajont, generando una scossa sismica e tre onde di proporzioni mai viste. La prima andò verso l’alto, la seconda distrusse alcune abitazioni del comune di Erto e Casso, e la terza, la più imponente, scavalcò la diga del Vajont e precipitò nella valle sottostante.

La gigantesca massa di acqua investì e spazzò via i centri abitati della vallata, soprattutto Longarone, che detiene il maggior numero di vittime.

Fu un disastro senza precedenti, in cui persero la vita quasi duemila persone, trascinate da fango e dai detriti o semplicemente polverizzate dall’onda d’urto provocata dalla frana, che secondo gli studiosi era circa il doppio di quella generata dalla bomba atomica su Hiroshima.

Ci fu un gran dispiego di aiuti per tentare di salvare il salvabile, da tutto il Veneto e il Friuli furono coinvolti diversi dipartimenti delle forze armate, dagli Alpini ai Vigili del Fuoco, che si occuparono di scavare nel fango per recuperare il maggior numero possibile di salme; nonostante ciò, furono recuperati e ricomposti sommariamente soltanto 1500 cadaveri, metà dei quali non è mai stato possibile riconoscere. Furono contattate anche le basi americane di Vicenza e di Aviano (PN), che si resero utili anche per trasportare via elicottero gli sfollati di Erto e Casso.

In Italia giunsero da numerosi capi di Stato esteri, tra cui il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy e la Regina del Regno Unito Elisabetta II, telegrammi di cordoglio ed espressioni di vicinanza. Partirono anche numerose raccolte fondi patrocinate dalla Croce Rossa Italiana, dalla Rai e da alcuni organi di stampa, ma anche da organi esteri come la Croce Rossa francese, per donarle alla popolazione colpita.

Il processo

A seguito della tragedia, dopo la ricostruzione delle zone colpite e la messa in sicurezza del bacino idroelettrico, fu aperta una causa legale i cui strascichi sono continuati fino al 2000.

Infatti, nel 1968 iniziò il processo ai danni di alcuni vertici della SADE e dell’ENEL, oltre che di alcuni funzionari dello Stato, a cui nella sentenza di primo grado non venne riconosciuto il reato di frana e inondazione.

Successivamente, però, la sentenza di secondo grado riconobbe la responsabilità degli imputati per i reati di cui sopra, oltre agli omicidi colposi e alla prevedibilità dell’evento, che era stata già sottolineata nelle prime fasi di costruzione della diga del Vajont ma su cui si era soprasseduto.

Particolarmente difficile fu la posizione dello Stato italiano, chiamato a rendere giustizia alle vittime ma allo stesso tempo a difendere gli imputati, accusati per un disastro causato da una proprietà statale (come già accennato, l’ENEL, la compagnia elettrica nazionale, aveva rilevato il progetto prima del completamento).

Il “dopo Vajont”

Alla fine, nel 1971, il processo penale si chiuse con la definitiva condanna di alcuni imputati a pochi anni, con l’assoluzione di altri, e con il non riconoscimento della prevedibilità della tragedia. Nel frattempo iniziarono i processi civili intentati dai Comuni, e gli effettivi risarcimenti alle vittime.

Nel 1964 era stata varata una legge, denominata “Legge Vajont“, che prevedeva che chiunque, tra i sopravvissuti, avesse avuto una licenza commerciale o produttiva e desiderasse riprenderla, aveva diritto ad un risarcimento ed alcune agevolazioni, ma aggiungeva anche che in caso contrario la licenza si sarebbe potuta cedere a terzi, che avrebbero usufruito delle stesse agevolazioni. Si verificò così un’ondata di cessioni delle licenze, che provocò che i fondi inizialmente stanziati per risarcire le vittime finissero nelle tasche di altre aziende o di intermediari.

L’ENEL, poi, offrì 10 miliardi dell’epoca come risarcimento, a condizione però che i sopravvissuti non si costituissero parte civile, e così molti dei superstiti non sporsero denuncia né parteciparono alle azioni legali. L’ultimo risarcimento risale al 2000, con 900 miliardi di lire pagati in parti uguali dai corresponsabili, ENEL e Montedison, eredi della SADE, e dallo Stato italiano.

Ancora oggi, sessant’anni dopo, l’Italia è divisa. C’è chi sostiene che il disastro poteva essere evitato, chi dà ragione a chi cercò di dissuadere dall’ultimare il progetto, e chi invece si concentra solo sul ricavo economico che il progetto della diga del Vajont avrebbe potuto portare.

La diga del Vajont, comunque, rimane ancora là, perfettamente integra, come un silenzioso monumento a questa immane tragedia, così come rimane in piedi il campanile di Pirago, frazione di Longarone, unico edificio parzialmente risparmiato dalla frana, a testimonianza della tenacia della pietra e di quel popolo, che nonostante tutto si è rialzato con le proprie forze.

Di certo, ancora oggi la tragedia del Vajont rimane una delle più gravi inflitte dalla mano umana in tempo di pace, e testimonia come i disastri naturali non vengano quasi mai da soli, ma sempre istigati dalla noncuranza dell’uomo verso i segnali del Pianeta. In un periodo di cambiamenti climatici ed eventi senza precedenti, sarebbe meglio meditare sugli effetti dell’attività umana sull’equilibrio della natura, e cercare di fare un passo indietro e di limitare il danno, dov’è ancora possibile.

Sul disastro del Vajont leggi anche:

La dissolvenza della memoria – un romanzo di Lauro Zanchi

Fonte dell’immagine in evidenza: Wikipedia

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