Aldo Moro, il 16 marzo 1978 il sequestro del presidente della Dc

Aldo Moro

Aldo Moro venne sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, esattamente quarantaquattro anni fa. Con lui, in via Fani, c’erano cinque membri della scorta, tutti uccisi durante l’agguato.

Esattamente quarantaquattro anni fa una delle pagine più buie della storia italiana: era il 16 marzo 1978 quando Aldo Moro venne rapito da un commando delle Brigate Rosse in via Mario Fani a Roma e i cinque membri della scorta furono brutalmente uccisi. Quella mattina il leader della Democrazia Cristiana era atteso alla Camera dei Deputati, dove di lì a poche ore si sarebbe votata la fiducia al quarto governo Andreotti. Si trattava di un momento di fondamentale importanza per il Paese: per la prima volta, dopo il 1947, tale governo – composto tutto da democristiani – avrebbe ottenuto l’appoggio esterno del Partito comunista italiano. 

Questo ‘capolavoro politico’ fu reso possibile soprattutto grazie ad Aldo Moro, allora considerato il principale artefice della nuova politica di «solidarietà nazionale». Già nel luglio 1976 era stata inaugurata la stagione del compromesso storico fra Dc e Pci con il primo governo della VII legislatura. Si trattava, tuttavia, di un’esperienza embrionale, durata fino al 13 marzo 1978 e fondata sulla «non sfiducia», cioè soltanto sull’astensione del Partito comunista e di tutti gli altri partiti dell’arco costituzionale: PSI, PSDI, PRI e PLI.

La presentazione delle dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Andreotti era stata fissata alle 10:00. Qualche minuto prima delle nove, Moro uscì dalla propria abitazione – in via del Forte Trionfale 79 – e si diresse verso il Parlamento con l’auto di rappresentanza: una Fiat 130 berlina non blindata. Ad accompagnarlo c’erano il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, suo fedele collaboratore, e l’appuntato Domenico Ricci. L’auto del leader della Dc era seguita da un’Alfetta con a bordo tutti gli altri componenti della scorta: il vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Francesco Zizzi e gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino

Come da abitudine, prima di raggiungere la Camera dei Deputati era prevista la sosta nella Chiesa di Santa Chiara. L’agguato brigatista, tuttavia, avvenne prima: fra via Mario Fani e via Stresa, una Fiat 128 con targa falsa del Corpo Diplomatico sbarrò la strada alle due auto del presidente. Subito dopo, quattro uomini – vestiti con finte uniformi Alitalia – sbucarono dalle siepi del ‘Bar Olivetti’ e aprirono il fuoco con mitragliatrici e pistole, uccidendo la scorta di Moro e prelevando quest’ultimo. Il presidente della Dc venne poi caricato su un’altra macchina, seguita da altri due uomini del commando. Le auto attraversarono via Trionfale per poi essere abbandonate – come raccontarono i brigatisti – in via Licinio Calvo. A questo punto, Moro fu costretto a salire su un furgone, chiuso in una cassa di legno e portato nel parcheggio sotterraneo della Standa di via dei Colli Portuensi. Qui i brigatisti poterono trasferire la cassa dal furgone su una Citroën Ami 8 e trasportarla – senza così destare sospetti – fino a via Montalcini 8, l’indirizzo dell’appartamento apprestato per fungere da luogo di detenzione di Aldo Moro. 

Il rapimento di Moro e l’uccisione della sua scorta furono rivendicati intorno alle ore 10:10 con una telefonata del brigatista Valerio Morucci all’agenzia ANSA: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse». 

E così, due giorni dopo, un comunicato delle Br chiarì i motivi per cui era stato rapito proprio Aldo Moro. Il presidente della Dc veniva descritto come «il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di quel regìme democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano». Per le Brigate Rosse, Moro rappresentava «il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste» e di «ogni tappa che ha scandíto la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro paese, dalle politiche sanguinarie degli anni ‘50 alla svolta del ‘centro-sinistra’ fino ai giorni nostri con l’accordo a sei». Ma soprattutto, attraverso la cattura del presidente democristiano, i brigatisti non volevano «chiudere la partita né tantomeno sbandierare un simbolo», quanto – piuttosto – «mobilitare la più vasta e unitaria iniziativa armata per l’ulteriore crescita della GUERRA DI CLASSE PER IL COMUNISMO».

Stando al racconto dei rapitori, Moro fu tenuto prigioniero al quartiere Portuense, presso l’interno 1 del numero 8 di via Camillo Montalcini. L’appartamento era intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, che l’aveva acquistato nel ’77 grazie ai soldi provenienti dal sequestro di Pietro Costa. A convivere con l’ostaggio, oltre alla donna, c’erano Prospero Gallinari – un brigatista clandestino che, in quanto tale, ricoprì il ruolo di carceriere di Moro – e l’«ingegnere Luigi Altobelli», che era in realtà il brigatista Germano Maccari.

Durante il periodo di detenzione, Moro scrisse 86 lettere indirizzate ai familiari, agli amici, al papa Paolo VI, ai principali quotidiani del tempo ma soprattutto ai colleghi di partito. A questi ultimi, egli chiese più volte di aprire una trattativa. Furono, in realtà, le stesse Br – nel comunicato numero 8 – a proporre di scambiare la vita del presidente della Dc con la libertà di alcuni terroristi incarcerati. Dinanzi a una simile possibilità, la politica si spaccò: da una parte, c’era il fronte della fermezza composto dalla DC, dal PSDI, dal PLI e dal Partito Repubblicano – che si oppose ad ogni tipo di dialogo con i rapitori; dall’altra, il fronte possibilista – di cui facevano parte Bettino Craxi, Raniero La Valle e intellettuali come Leonardo Sciascia – per cui era necessario trattare. Alla fine prevalse il primo orientamento: a opporsi furono anzitutto i colleghi democristiani, convinti che un’eventuale trattativa avrebbe indebolito lo Stato e generato un pericoloso precedente per nuovi sequestri.

Questo significò, però, nei fatti, la morte di Moro. Con il nono e ultimo comunicato del 5 maggio, le Br annunciarono la conclusione del «processo popolare» a carico dello statista: «Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza». Quattro giorni dopo – a ben 55 giorni dal rapimento – Moro fu assassinato con arma da fuoco per mano del brigatista Mario Moretti. Il cadavere venne ritrovato il giorno stesso in una Renault 4 rossa in via Caetani, vicino alla sede della DC e del PCI.

Dopo l’assassinio, la famiglia Moro rifiutò qualsiasi celebrazione ufficiale e diffuse la seguente nota: «Nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la Storia». La morte del presidente della Dc ebbe enormi conseguenze a livello politico: portò alle dimissioni di Francesco Cossiga, allora Ministro dell’Interno; ma soprattutto, segnò la fine del compromesso storico e dei governi di solidarietà nazionale con l’appoggio del Partito Comunista. 

Foto: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Agguato_di_via_Fani_-_Roma,_16_marzo_1978.jpg

A proposito di Davide Traglia

Davide Traglia. Nato a Formia il 18 maggio 1998, laureato in Lettere Moderne, studente di Filologia Moderna presso l'Università 'Federico II' di Napoli. Scrivo per Eroica Fenice dal 2018. Collaboro/Ho collaborato con testate come Tpi, The Vision, Linkiesta, Youmanist, La Stampa Tuttogreen. TPI, Eroica Fenice e The Vision.

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