Campi di internamento in Italia: dove sono?

Campi di internamento in Italia: dove si trovano?

I campi di concentramento o internamento erano delle strutture carcerarie adibite alla deportazione e prigionia di individui indesiderati che costituivano una minaccia per il regime. Venivano di solito scelte delle strutture inutilizzate come castelli, ville, fabbriche abbandonate oppure venivano create baracche o container in luoghi isolati lontani da centri abitati in cui il clima rigido, aggiunto alle difficili condizioni di detenzione, rendevano ancora più difficile la permanenza nel campo.

Quando si parla di campi di concentramento, ciò che ci salta subito in mente sono la Germania nazista e i campi di sterminio di Dachau o Auschwitz. Ma, forse non tutti sanno, che anche in Italia furono istituiti dei campi di internamento.

Nel territorio italiano era ormai prassi allontanare dissidenti politici o persone pericolose per la sicurezza nazionale. Infatti, a partire dal 1863, per contrastare il fenomeno del brigantaggio, venne utilizzato lo strumento del domicilio coatto, che consisteva nel prelevare l’individuo pericoloso e allontanarlo affinché non nuocesse al governo italiano. Tale strumento venne utilizzato e via via modificato negli anni. Infatti, a partire dal 1911, durante la guerra coloniale per la conquista della Libia, molti civili subirono misure di internamento nelle zone del conflitto o di deportazione verso la penisola. Nel 1926, con le leggi fascistissime, il domicilio coatto venne a tutti gli effetti sostituito dal confino di polizia nei confronti degli oppositori politici. Con la Seconda Guerra Mondiale, però, tale procedimento fu tramutato in internamento civile, concepito come un vero e proprio strumento amministrativo di prevenzione. A partire dal 1940 anche l’Italia inizia ad organizzare e a rendere operativi i campi di internamento civile che però non erano imitazioni dei lager nazisti, in quanto perseguivano obiettivi diversi. Essi operavano ai fini di sottomettere i dissidenti politici, le popolazioni delle colonie e purificare la razza italiana, internando gli stranieri come ebrei, sloveni, croati, serbi, bosniaci, albanesi, cinesi, rom e greci.

Tra gli anni ’40-’50, le strutture di internamento sul suolo italiano erano dislocate nella maggior parte nel centro sud: in Toscana, Umbria, Marche, due ampi baraccamenti nel Lazio (quelli di Fraschette di Alatri e Castelnuovo di Farfa), addirittura 19 tra il Molise e l’Abruzzo, in Campania, Puglia, Basilicata e in Calabria, in cui si trova il più grande campo per l’internamento dei civili: quello di Ferramonti di Tarsia, a Cosenza. La vita all’interno dei campi variava da campo a campo, in base alla locazione geografica, alla grandezza e alla tipologia di edificio. Nei campi più grandi, le condizioni di vita erano simili a quelle di una prigione, stati di grave malnutrizione, privazione e continue vessazioni fisiche e psicologiche, ritmi lavorativi disumani, sovraffollamento, mancanza di igiene con diffusione di malattie, ma non erano vittime di violenze premeditate come in Germania.

I campi di internamento in Italia si dividevano in due tipi:

  • quelli controllati dal Ministero dell’Interno, destinati agli internati civili di guerra, in cui il tasso di mortalità era minore e dovuto maggiormente alle pessime condizioni di vita;
  • quelli di pertinenza del regio esercito, che accoglievano per lo più deportati civili iugoslavi e prigionieri di guerra, in cui le condizioni rigide di prigionia erano simili a quelle dei lager tedeschi e avevano un tasso di mortalità molto alto.

Il più grande campo a gestione militare era quello di Gonars, in provincia di Udine, nel quale morirono circa 400 prigionieri in un anno.

In entrambi i casi, quindi, non si trattava di una premeditata volontà di sterminio ma le numerose morti erano solo legate alle precarie condizioni subite dai detenuti. L’unico campo di sterminio in territorio italiano fu quello della Risiera di San Sabba, costruito a Trieste dopo l’occupazione nazista della Venezia Giulia in cui crearono il territorio del Reich.

Simili erano le condizioni che subivano le internate femminili. Venivano imprigionate le donne con sospetta linea politica provenienti da stati confinanti o nemici, ebree di origini italiane ed anche stranire, e belle donne accusate di dubbia moralità, che assumevano dei comportamenti contro la morale fascista o che, usando il proprio fascino, cercavano di carpire informazioni e segreti militari. Esse erano soggette a pressioni rieducative e spesso subivano il ricatto sessuale da parte delle autorità maschili del campo. I campi di internamento femminili sul suolo italiano, tutti installati in aree del paese con bassa densità demografica, erano 6 e i due più importanti erano quelli di Casacalenda e Vinchiaturo.

Dopo la caduta di Mussolini, con la fondazione della Repubblica Sociale Italiana nel 1943, vengono creati nuovi campi di concentramento che hanno solo una tipologia di internati da rinchiudere: gli ebrei da detenere fino alla consegna ai tedeschi per la deportazione in Germania. I cosiddetti campi di smistamento, anticamera dei lager europei, furono quattro: Borgo San Dalmazzo a Cuneo, Fossoli a Modena, Grosseto e Bolzano-Gries.

Dopo la guerra, i campi di internamento civile non vennero più ripristinati dal governo italiano e nella Costituzione della Repubblica italiana del 1948 vennero esplicitamente rimossi dal sistema penitenziario.

 

Fonte immagine per l’articolo “Campi di internamento in Italia: dove sono?”: Campo di internamento di Ferramonti di Tarsia – Wikipedia 

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