Dagherrotipo: storia e leggenda di un antenato

Dagherrotipo: storia e leggenda di un antenato

Una breve storia del dagherrotipo, l’antenato della fotografia

«Tutte le immagini scompariranno». Dal tono ieratico la sentenza contenuta nel Premio Strega Gli Anni, tra gli ultimi capolavori di Annie Ernaux. Una tragica consapevolezza per gli abitanti della società dello spettacolo. Régis Debray, fra gli studiosi più attenti all’importanza dell’occhio nel mondo Occidentale, afferma che nel momento in cui l’uomo non avrà più timore della morte, allora non avrà più bisogno di immagini. Dal sarcofago egizio alla fotografia, l’uomo ha perseguito un’avventura contro la forza dirompente del tempo, duplicando se stesso nell’ossessione della rappresentazione.

La leggenda del dagherrotipo

Fin dal dagherrotipo, considerato l’antenato della fotografia, l’immagine è stata concepita come uno spettro. Victor Hugo e Guy de Maupassant parlano dell’altro che è dentro di noi, celato allo specchio. L’immagine riproducibile della fotografia ha svuotato la morte cristiana della trascendenza. Come si nota nella letteratura decadente, la fotografia ha una furia omicida. La letteratura ha caricato di senso religioso la fotografia, creando quindi il mito della sua creazione, il racconto La leggenda del dagherrotipo di Jules Champfleury.

Champfleury, fondatore del giornale “Le realisme”, narra la vicenda di un borghese provinciale che recatosi a Parigi, luogo di perdizione per l’anima del poeta, decide di fare un regalo alla moglie: un ritratto fotografico. La fotografia era considerata il rifugio degli incapaci, dei pittori mancanti, il talismano dei trafficanti di apparenze. Il fotografo costringe così il borghese a lunghe sedute, cospargendolo di creme, così come fa con la lastra fotografica, preparando il suo soggetto al sacrificio. L’uomo, impresso sulla pellicola fotografica, scompare fisicamente. Ne resta la voce, tormento per il suo fotografo carnefice. Il reale è messo seriamente in pericolo dal dagherrotipo.

L’immaginario mortifero alimentato dall’avvento del dagherrotipo persiste nella letteratura francese (e non solo), con le voci autorevoli di Marcel Proust e Roland Barthes. Famoso per l’aneddotica sul suo conto, lo scrittore di Alla ricerca del tempo perduto, fu a tal punto affascinato dal mondo fotografico da svenire in camera oscura. La fotografia si connota come un’immagine malinconica connessa alla morte perché, come afferma Barthes, la persona rappresentata è relegata nel ça a été. L’atto fotografico diventa un memento mori, ricordo costante a chi è fotografato che il suo destino è la morte. Famosi i primi dagherrotipi dei uomini sul proprio letto di morte, realizzati per immortalare il momento e coglierne il senso, il mistero.

La storia del dagherrotipo

Il dagherrotipo è un procedimento fotografico realizzato dal francese Louis Jacques Mandé Daguerre da un’idea di Joseph Nicéphore Niépce e di suo figlio Isidore. Lo scienziato François Arago presentò questa ambiziosa invenzione davanti alla comunità scientifica nel 1839, presso l’Académie des Sciences e dell’Académie des Beaux Arts. Macedonio Melloni si pronunciò sul dagherrotipo parlando di «miracolo».

Il dagherrotipo non è in realtà il primo procedimento di riproduzione fotografica, ma l’immagine riprodotta dalla maggior parte delle precedenti tecniche aveva la tendenza a scomparire rapidamente a causa dell’azione della luce del sole o dell’assenza di fissatori chimici adeguati. Il dagherrotipo è stato il primo procedimento a consentire la persistenza permanente dell’immagine, il che consentì inizialmente il suo utilizzo a scopo commerciale.

Procedimento di realizzazione

Il primo passo per la realizzazione del dagherrotipo è quello di procedere con un’applicazione elettrolitica di uno strato d’argento su una lastra di rame, poi sensibilizzata alla luce con vapori di iodio. Lo sviluppo del dagherrotipo avviene attraverso vapori di mercurio a circa 60 °C, gli stessi che generano il superficiale effetto negativo tra zone chiare e scure. L’immagine ottenuta, il dagherrotipo, non è riproducibile e deve essere osservata sotto un angolo particolare per riflettere la luce in modo opportuno. Il rapido annerimento dell’argento e la fragilità della lastra determinarono la costruzione di piccoli e preziosi cofanetti, spesso ornati da intagli in ottone, pelle e tessuti delicati. L’accuratezza nella preservazione del dagherrotipo era motivata, oltre che dalla sua caducità, dall’estrema attenzione per l’immagine riprodotta, di questo misterioso altro da sé che preservava una parte de soggetto raffigurato.

I tempi di sviluppo erano piuttosto lunghi, così, per estendere il campo d’applicazione della dagherrotipia anche al giornalismo, John Frederick Goddard utilizzò i vapori di bromo per aumentare la sensibilità della lastra, risultato che ottenne anche Jean Francois Antoine Claudet, ma con i vapori di cloro. Dopo dieci anni di uso del dagherrotipo, si brevettarono dunque nuove tecniche, molto meno dispendiose di energie, tempi di realizzazione, e costi per la strumentazione necessaria. Il dagherrotipo, oggetto di una primordiale élite, si democratizzava così in forme di immagine riproducibili, ripercorrendo infinitamente il mistero della morte del soggetto fotografato.

Un mito, quello del dagherrotipo, che ancora fomenta la fantasia dei più avidi pensatori.

Fonte immagine: Wikipedia Commons

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A proposito di Carolina Borrelli

Carolina Borrelli (1996) è iscritta al corso di dottorato in Filologia romanza presso l'Università di Siena. Il suo motto, «Χαλεπὰ τὰ καλά» (le cose belle sono difficili), la incoraggia ogni giorno a dare il meglio di sé, per quanto sappia di essere solo all’inizio di una grande avventura.

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