Estate 2017: cosa vale la pena ricordare?

Estate

“L’Estate sta finendo…e un anno se ne va”cantavano qualche anno fa (un bel po’, a dire il vero), dei tizi che non avevano nulla in comune con  tutti i guerriglieri delle hit estive che ogni anno vengono puntualmente scongelati ai primi tepori di aprile o maggio, dopo aver passato un anno in banco frigo.
L’estate sta finendo, o forse è finita già, come sembra preannunciare l’aria che si è fatta già più elettrica, l’odore della pioggia che suggerisce fantasie di plaid, tazze di tisane che ti bruciano la gola, maratone di film e serie TV, passeggiate nei boschi a respirare l’aroma delle foglie secche e della natura che comincia a ripiegarsi verso una sorta di raccoglimento interiore e intimo. L’autunno è la stagione più intima di tutte: c’è un’intimità sofferta e primordiale nello spegnersi lentamente della vegetazione e negli slanci che portano a mescolare gradazioni e tonalità di colore. Quasi come se il grande corpo della natura accogliesse il desiderio di ristoro, equilibrio e raccoglimento dell’anima, cullandola con carezze dalle sfumature calde e dalle screziature arancioni. I ritmi forsennati dell’estate sono ormai lontani come l’ultimo eco di Despacito, settembre si è già intrufolato nelle pieghe della quotidianità e ci conduce a fare quella cosa odiosissima per cui l’essere umano non si sente mai pronto: i bilanci. Nessun bilancio colmo di rimpianti, melodrammi e isterie, nessun accenno al peso corporeo, a nostalgie improbabili o rimpianti di dubbia qualità. Cosa ricorderemo di questa estate che s’è appena dileguata?

Cosa resterà dell’Estate 2017?

Di alcune cose non sentiremo la benché minima mancanza, diciamoci la verità. Nemmeno una punta di nostalgia sciocca da discount. Non sentiremo la mancanza di nessuno dei tormentoni estivi, nonostante il rapporto viscerale che noi comuni mortali instauriamo con queste entità mitologiche che sembrano programmate per sfornare hit sempre uguali ogni anno. Rapporto viscerale sì, perché prima li odi in modo bellicoso, meditando la soluzione alla Van Gogh pur di non prestare più l’orecchio a nessun Pasito Suavecito, ma poi ti ritrovi a ripetere e cantare meccanicamente quelle stesse canzoni che avevano provocato in te cinquanta sfumature di vituperio. Un po’ come i  The Jackal nel loro famoso video.
Poi, Sarahah. Inizialmente, sembrava che tutti i contatti presenti sulla Home avessero fuso all’unisono il nome Sarah e la trascrizione di una risata alquanto sguaiata, ma non si capiva cosa fosse. Una risata uscita male? Una tizia di nome Sarah che suscitava particolare ilarità a tutto il popolo di Facebook? E invece no, era l’ennesima app meteora: infatti è durata meno di un gatto in tangenziale. Per due, massimo tre giorni (volendo essere clementi), Facebook è diventata una vetrina di messaggi anonimi, di offese ignote, complimenti improbabili e ammiratori segreti dell’ultima ora. Desiderio di ricevere attenzioni, voglia di emulare gli altri che avevano già installato l’app e febbrile curiosità di sapere cosa gli altri pensino del prossimo sono stati gli ingredienti che hanno determinato il boom di Sarahah che originariamente era nata come strumento per ricevere critiche costruttive sul posto di lavoro. Peccato che su Facebook si sia tramutata in qualcosa di più simile a una cloaca, tra insulti pesanti e bassezze basate perlopiù sulla denigrazione dell’aspetto fisico. Non tutti hanno saputo “giocare”: c’era proprio bisogno di qualcosa del genere?  Nessuno si è posto questa domanda, specie ora che la moda si è dileguata peggio degli ultimi bicchieri di vino alla Sagra dell’Asparago Selvatico o del Cavatiello Verace.
Che dire del Salento? “Lu sule, lu mare e lu ientu” ? Non ci mancherà di certo avere la home tappezzata di tramonti salentini instagrammati, hashtag improbabili del calibro di #sisboccia e #ciaopovery. Non ci mancherà assistere alla progressiva invasione di Gallipoli, Otranto, Punta Prosciutto, Porto Cesareo, le Maldive del Salento e altri luoghi divenuti ormai abituali nella nostra home, come abituale è per noi il rito di lavarci i denti al mattino e passare il filo interdentale. Roba che ormai bisognerebbe evitare tassativamente il Salento per non incontrare il dirimpettaio o tutta la tua vecchia classe dell’asilo. Dell’estate 2017 rimarrà anche il crollo di Gianluca Vacchi, emblema del bluff  patinato e rifinito a dovere con tanto di filtri Instagram, le miriadi di sagre e  l’exploit di Temptation Island, che ci ricorda che per fare un po’ di sano birdwatching della nostra specie, non bisogna necessariamente andare così lontano ed osservare per forza esempi illustri. Basta osservarne gli esemplari più semplici e annotarne i meccanismi di accoppiamento, contatto e metamorfosi, per avere uno spaccato verace della situazione affettiva generale.
Rimarrà la smania del divertimento a tutti i costi, dell’ostentazione e della volontà di esibirci come carne sul banco del macellaio. Senza voler fare il verso a nessuna profondissima hit, quali L’esercito del selfie o Vorrei ma non posto, scrolliamoci via gli ultimi granelli di sabbia che ci infastidiscono in zone recondite e avviamoci verso la quotidianità. Verso l’equilibrio, verso quel Settembre che faceva migrare i pastori dannunziani verso il mare.
Sempre che a qualcuno, durante la transumanza, non ritorni la brillante idea di fare a schiaffi con le onde o con il vento, sotto il sole di Riccione.

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A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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