Il kintsugi (o kintsukuroi) è un’espressione giapponese che letteralmente significa “riparare con l’oro”. Questa antica tecnica consiste nell’utilizzare un metallo prezioso per riunire i frammenti di un oggetto di ceramica rotto, valorizzandone le crepe. Il collante usato è la preziosa lacca urushi, una resina vegetale che, mescolata con polvere d’oro, argento o platino, trasforma le fratture in preziose venature. Questa pratica non solo favorisce il riutilizzo dell’oggetto, ma incarna una profonda filosofia: quella del Wabi-sabi, l’accettazione della transitorietà e la bellezza che si trova nell’imperfezione.
Indice dei contenuti
«C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce». (L. Cohen, Anthem 1992)
| Fasi del Kintsugi: tecnica e metafora | Descrizione |
|---|---|
| La rottura | Tecnica: l’oggetto si frantuma. Metafora: un trauma, un fallimento o un dolore che spezza l’equilibrio interiore. |
| L’assemblaggio | Tecnica: i frammenti vengono raccolti e ricomposti. Metafora: la raccolta dei pezzi della propria vita, la consapevolezza della propria ferita. |
| L’attesa e la riparazione | Tecnica: le crepe vengono saldate con la lacca urushi e lasciate asciugare lentamente. Metafora: il tempo paziente della guarigione, l’accettazione della propria vulnerabilità. |
| L’esaltazione | Tecnica: la polvere d’oro viene applicata sulle cicatrici. Metafora: la trasformazione della ferita in un punto di forza e bellezza unica, simbolo di resilienza. |
La filosofia del kintsugi: un simbolo di resilienza
Ogni ciotola o vaso riparato si riveste di venature dorate che lo rendono unico. Ogni fessura simboleggia una caduta, una difficoltà, un pensiero doloroso. Eppure, da ogni ferita può nascere una nuova forma di perfezione, che abbraccia le fragilità. In questo senso, l’arte del kintsugi, come attestato da fonti autorevoli come l’Enciclopedia Treccani, diviene un potente simbolo di resilienza. Non si tratta di nascondere le cicatrici, ma di esaltarle, rendendole la parte più preziosa dell’oggetto.
Le origini leggendarie della preziosa riparazione
Secondo la tradizione, questa tecnica sarebbe nata nel XV secolo, quando lo shogun Ashikaga Yoshimasa ruppe la sua tazza da tè preferita. La inviò in Cina per la riparazione, ma gli fu restituita tenuta insieme da graffe metalliche antiestetiche. Deluso, affidò l’oggetto a degli artigiani giapponesi che, ispirati dalla necessità di trovare una soluzione più elegante, decisero di riempire le crepe con lacca e polvere d’oro. Il risultato fu un oggetto ancora più bello e prezioso dell’originale.
Le tappe del processo: dalla rottura alla rinascita
La metafora del kintsugi offre un importante spunto di riflessione: non si devono rinnegare i propri fallimenti, ma rielaborarli in positivo. Proprio come un oggetto rotto, anche noi meritiamo di essere ricostruiti con l’oro. Le tappe della tecnica sono le stesse che ciascuno può seguire per superare la propria rottura.
Superata la fase della rottura, bisogna raccogliere tutti i pezzi e assemblarli. In questa fase, il ceramista deve pazientare, liberando i frammenti dalle impurità. Metaforicamente, è un ritorno all’essenziale, che ricorda i principi della filosofia estetica giapponese del Wabi-sabi, come spiegato da istituzioni come l’Istituto Giapponese di Cultura. Si passa poi alla riparazione vera e propria, saldando le ferite con la lacca, e infine all’esaltazione, quando la polvere d’oro rivela la nuova, preziosa forma dell’oggetto.
«Perché sai, a volte il libro migliore è quello più polveroso. E a volte la tazza migliore è quella col bordo scheggiato». (da Once Upon a Time)
Fonte immagine: Wikipedia
Eleonora Vitale
Articolo aggiornato il: 23/09/2025

