La notte dei poeti fucilati. In memoriam

notte di poeti fucilati

La notte dei poeti fucilati, eccidio in cui trovarono la morte poeti, occorse nella notte tra il 29 e il 30 ottobre 1937 nella città bielorussa di Minsk. In questo articolo procederemo a conoscere, analizzare e capire meglio gli avvenimenti legati alla Notte dei poeti fucilati.

La notte dei poeti fucilati può vedersi come uno degli apici del processo di monopolizzazione delle cultura operata da Stalin al tempo del Grande Terrore. Non solo l’eliminazione fisica colpì i personaggi politici scomodi al suo totalitarismo, ma anche coloro che erano in grado di orientare la cultura in favore di un criticismo che osasse sfidare la prassi comunista nella Russia post-zarista. Il processo di ‘russificazione’ dei paesi limitrofi dell’Unione Sovietica, nel suo eradicamento delle radici storiche di una qualsiasi cultura altra rispetto a quella proposta dal totalitarismo, portò alla soppressione di numerosi intellettuali che dopo l’assolutismo zarista videro la possibilità dell’autoaffermazione culturale con significati identitari; ciò però non fu tollerato da Stalin che vide in questo focolai nazionalistici, ridotti perciò al silenzio subitaneo.

Poeti, esponenti della cultura, furono per questo massacrati (alcuni condotti nei gulag) allo scopo di ridurre al silenzio quanti sminuivano la figura di ‘padre della patria’ propagandata dal regime. Una pratica, quella della propaganda, di cui si nutre ancora oggi il totalitarismo, e che la voce della poesia tenta sempre di ridimensionare nella realtà. Era questo l’intento, per esempio, del russo – oggi la geografia ci direbbe polacco – Osip Mandel’štam (1891-1938) che indirizzava a Stalin un violento quanto lucido epigramma, di cui si ricordano i primi versi: «Viviamo senza sentire sotto di noi il paese | a dieci passi le nostre voci sono già belle e sperse | e dovunque ci sia spazio per quattro chiacchiere | si dà una mezza conversazioncina | là ti ricordano il montanaro del Cremlino | le sue tozze dita come vermi grassi | come pesi di ghisa le sue parole esatte | se la ridono gli occhioni di blatta | e rilucono i gambali dei suoi stivali» (Epigramma a Stalin, vv. 1-9, 1933). Ritornando in Bielorussia e, in particolare, alla Notte dei poeti fucilati, dunque, se è vero che l’eccidio rappresenta il massimo tentativo di soppressione dell’ideologia e della libertà di espressione, dall’altro esso è massimo esempio di un tentativo di affermazione della propria identità umana e politica attraverso la significanza della parola poetica.

L’associazione Maladniak e le vittime del totalitarismo: letture

Ricordarsi della Notte dei poeti fucilati non vuol dire solo rievocare il tragico evento, quanto piuttosto tenere vivi nella memoria quelli che possono dirsi martiri della libera espressione in forma di poesia. In questo senso va ricordata l’associazione di intellettuali bielorossi riunitisi sotto il nome di Maladniak; tale gruppo, patrocinato dal partito comunista e attivo nella sua istituzionalità culturale da 1923 al 1928, risultò determinante per l’orientamento del fenomeno poetico nella Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa. Significativo appare il patrocinio del partito, che dopo la proclamazione dell’URSS nel dicembre dell’anno precedente, forse vedeva in Maladniak uno strumento di propaganda dell’ideologia di regime, salvo poi condannarne i maggiori esponenti, constatandone il differente orientamento: gli intellettuali bielorussi, infatti, erano maggiormente interessati ad affermare l’identità culturale bielorussa, ma tale tentativo di affermazione di una siffatta soggettività nazionale si scontrava con la propaganda del culto della personalità staliniana propugnato dal regime. Tra gli intellettuali bielorussi condannati vi fu proprio del primo direttore di Maladniak, Mihas’ Čarot (1896-1837), fucilato nella Notte dei poeti massacrati. Alla sua seguirono altre condanne a morte, come quella di Juli Taŭbin (1911-1937), o deportazioni, come avvenne per Uladzinir Doŭboka (1901-1976), che al suo ritorno proseguì la sua attività di intellettuale. 

Leggendo dunque i versi di alcuni dei poeti che orbitarono intorno a Maladniak, sembrano potersi riconoscere i segni del disorientamento dell’animo poetico dovuto alla presenza ingombrante del totalitarismo, come pare potersi scorgere nella poesia Sulla strada d’inverno (1926) di Mihas’ Čarot. La poesia si apre con quella che sembra la rievocazione di una genuina quotidianità faticosamente conquistata – si ricordi che la Russia, pochi anni addietro, era stata sconvolta dalle guerre tra armate rosse e armate bianche e che nel 1922 era stata proclamata l’U.R.S.S. – in cui irrompe la tragica presa di coscienza di una imminente catastrofe, simboleggiata dal gelo: «Per i boschi, per i prati | le slitte una dopo l’altra | segnano il percorso. | Seminano quiete. | I cavalli bianchi | al trotto | hanno sciolto le criniere brizzolate. | Scricchiolano, cigolano | i pattini nelle scie, cantano… | Senza mai fermarsi | nella strada gelata… | I contadini non avvertono | il gelo nelle mantelle…» (vv. 1-14). L’arguzia di Čarot pare intravedersi proprio nella crasi tra i primi versi ecfrastici e quelli recanti il punto di vista consapevole del poeta, apparentemente l’unico ad essere cosciente che non ci sarà modo di ripararsi dal “rigore” che si annida sotto le mantelle dei poveri contadini: prefigurazione, come si diceva, dell’avvento del totalitarismo che, proprio come il gelo, si rende prossimo e padrone della quotidianità degli individui; da qui, il ritmo almeno apparentemente placido dell’inizio del componimento si fa teso e quasi rocambolesco nel momento in cui la presa di coscienza da individuale diventa collettiva. I versi infatti proseguono in questa visione consapevole, in cui l’immagine predominante è quella della desolazione scandita dall’incalzare incessante del freddo – dopo il «gelo», si fanno strada la «bufera» e lo scatenarsi della «tormenta» (vv. 14, 16, 21) – che annulla ogni residuo legame con il paesaggio familiare: «dietro la bianca brina | la valle | scompare, scompare | scompare» (vv. 23-25). 

Più esplicita è la crasi che si esplicita nella poesia di Juli Taŭbin, nei cui componimenti è evidente la negazione delle libertà cagionata dal totalitarismo e la ricerca affannata di un senso ontologico di libertà individuali: «Quando mi toccherà morire e diventare un corpo insulso… | Non voglio che ciò accada presto, perciò | voglio vivere ora, vivere, | vivere la vita che solo io so decifrare, | la vita che solo io sono a governare» (Quando mi toccherà morire, vv. 1-4). Ciò scaturisce dalla consapevolezza dell’autore, ucciso nella Notte dei poeti fucilati, di vivere in tempi costantemente segnati dalla prigionia del totalitarismo; ciò pare evidente nel componimento Dall’infanzia ciascuno di noi (1930): «Dall’infanzia ciascuno di noi è condannato | e paga i censi con il proprio sangue. | In terra bielorussa diventare un poeta | è più semplice che diventare qualcos’altro. | La carrozza spinge come il pesce catturato, | i rami delle betulle colpiscono i vetri, | e anche la mia poesia si getta in avanti | proprio come quel pesce nella rete» (vv. 1-8). La consapevolezza amara di trovarsi a vivere il ruolo di poeta in una società nella quale è soppressa la libertà (nello specifico di espressione) non distoglie Taŭbin dalla missione della poesia: rendere parola un’idea, anche a costo di andare incontro alla prigionia. In tale consapevolezza è accresciuto il profondo senso di amarezza che negli ultimi versi della poesia assume accenti quasi profetici, visti gli eventi legati alla Notte dei poeti fucilati: «Ciascuno di noi è condannato dall’infanzia | e versa i gravosi censi per la condanna… | Dicono che la vita di un poeta, | rispetto ad altre, sia più amara ||» (vv. 8-12).undefined

Altra voce che trovò la morte nella Notte dei poeti fucilati fu quella di Ales’ Dudar, pseudonimo di Ales’ Dailidovič (1904-1937), che inneggiava nei suoi versi all’affermazione culturale dell’identità bielorussa, schierandosi così apertamente, insieme agli altri, contro il processo di ‘russificazione’. Nel suo componimento Maggiolini (1928), pervaso di una carica icastica in cui si trasfigurano l’immagine presente e quella del passato, Dudar si trova sospeso nella metafora entomologica per cui i maggiolini diventano correlativo di una trascorsa stagione rivoluzionaria: «Maggio fuori dalle finestre è lo stesso, | pieno di sole, primavera e poesie| […] | La sera grigia si leva sul giardino, | ronza sotto il susino uno sciame di maggiolini. | La verità di ieri è nel loro ronzio, | nel loro ronzio sono i giorni passati. | […] | come maggiolini ronzavano pallottole | e come pallottole ronzavano maggiolini» (vv. 1-2, 5-8, 11-12). La discrasia tra la placidità dell’immagine del susino affollato di maggiolini muta nel ricordo doloroso della rivoluzione combattuta per la libertà e nella commemorazione dei suoi martiri: « […] Quei giorni erano senza preghiera, nel calore bollente | del camminare incessante, | tra buche e fosse in quegli anni | portavamo la rivoluzione avanti. | […] | Con la vittoria arrivò la fama | quindi puoi dispiacerti per le vittime? | Ognuno di noi era pronto a sacrificare | il suo cuore per la nostra causa» (vv. 25-28, 37-40). Una poesia che condensa in sé, dietro l’immagine primaverile, una duplice dimensione tragica: la prima relativa al ricordo della morte che attraversava le strade in cui si consumava la rivoluzione; la seconda – e la si può evincere tenendo presente l’anno di composizione della poesia – sembra realizzarsi in un senso di amarezza e sconforto dato dalla constatazione della perdita di quelle libertà, che sono costate la morte di tanti compagni, dovuta alle pratiche soppressive del totalitarismo staliniano.

Il componimento poi di Duboŭka, scampato all’eccidio nella Notte dei poeti fucilati, ma non all’esilio, So che anch’io morirò come tutti (1926), assume un valore paradigmatico per tutta la produzione poetica bielorussa avversa al totalitarismo – un’avversione, pare opportuno sottolineare, che non si risolve mai soltanto nella denuncia degli obbrobri del regime, ma nella rivendicazione dell’autonomia e della libertà della parola segnatamente poetica –. In quello che sembra uno slancio vitalistico nei primi versi dopo la constatazione della morte ineludibile («E amo ancor di più questo vasto mondo | e questo cielo in parte variopinto. | […] | Questa è la felicità! Dirà qualcuno: poca...», vv. 2-4, v. 8), irrompe nei versi, a mo’ di chiave, la tematica civile che intride l’intera poesia: «Per cambiare, fermare, forse non c’è più forza, | ma è possibile andare contro corrente. | Lungo la strada, anche se qualcuno ha già ricevuto il malocchio, | non cambierà il cammino, non si fermerà» (vv. 9-12). Ecco che allora la coscienza della prossima morte assume la profonda consapevolezza di essere contro corrente, cioè opporsi alla pratica totalitaria. Tale consapevolezza, però, nutrita della sua tragedia, diventa reazione e incitamento a schierarsi ideologicamente sul fronte contrario a quello della inarrestabile macchina totalitaria, mantenendo, così, salde nella mente le immagini edeniche di prossimo passato (in cui la caduta dell’assolutismo zarista aveva recato ventate di libertarie) già idealizzato come ‘paradiso perduto’: «Perdi, selva, il tuo fogliame d’oro | luccicavi di fiera bellezza. | Mi stregavi – per questo? per altro? | con sussurri sommessi di accordi e accordi…» (vv. 13-16).

Nonostante l’amarezza che traspare dal componimento, pare impossibile non notare una la speranza che il poeta nutre per ritornare a contemplare le ‘foglie d’oro’ che ritornano a intarsiare le immagini della propria terra d’origine; una speranza che ricompare anche nel componimento di Jaŭhenija Pflaŭmbaŭm, moglie del poeta Maksim Lužanin, (esiliato in Siberia), Gioia…, consapevole della vanità del tutto di fronte al tempo, un tempo che tuttavia non sarà in grado di spegnere il profondo sentimento che esprime l’umana e genuina affermazione del sé contro la barbarie, il solo in grado di squarciare la nera coltre della negazione delle libertà: «Tutto passerà, sbiadirà in luci  e ombre | e la bellezza schiumerà nel pantano delle canizie, | e solo luminosi, irruenti desideri | non cesseranno di accendersi e spirare» (vv. 1-4). Pare inoltre potersi riscontrare nel componimento un afflato di religiosità panica nell’alternarsi delle stagioni del tempo e della vita umana, nonché in quelle ideologiche: «ma i sentieri serpi profetano l’immenso | e la gioia sfinita scompare dietro il pendio. | E vive di nuovo. Nel fremito dei secoli, | intreccia anni pensierosi e brillanti, | e nel mosaico dei girotondi della vita | lascerà nuove indelebili impronte» (vv. 11-16). Tale fiducia sembra esprimere una profonda coscienza nazionale, collettiva, nutrita delle esperienze non solo poetiche, non solo intellettuali, ma soprattutto umane che per natura necessitano il recupero dell’identità primigenia.

Da una breve e forse anche riduttiva lettura dei componimenti di autori che orbitarono intorno a Maladniak, pare emergere al contempo l’aspirazione all’affermazione di una identità culturale autonoma da quella segnatamente russa e al contempo l’amarezza per la constatazione di vedersi negate quelle medesime aspirazioni. Nonostante questo si fa comunque strada tra i versi la necessità di continuare a credere nella possibilità della parola poetica di dar voce, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, al libero sentimento culturale e identitario.

Crestomazia poetica bielorussa per la Notte dei poeti fucilati

Le poesie, in traduzione dal bielorusso, di seguito proposte non seguono un ordine cronologico né tematico: esse paiono enuclearsi l’una dall’altra secondo i personali sviluppi del significato civile attribuito a tali componimenti. Inoltre, è parso più opportuno ricordare anche solo alcune delle vittime della Notte dei poeti fucilati (i poeti uccisi risultano essere venti) non solo attraverso la rievocazione dell’evento tristemente passato alla storia, ma anche, e soprattutto, attraverso le voci di quei poeti; voci apparentemente singole, ma che si fondono in un coro che diventa inno alla propria patria. Si desidera ringraziare, infine, Aksana Danilcyk e Larisa Poutsileva per la segnalazione delle poesie.

Mihas’ Čarot, Sulla strada d’inverno (traduzione di Maya Halavanava)

Sulla strada d’inverno
per i boschi, per i prati
le slitte una dopo l’altra
segnano il percorso.
seminano quiete.
I cavalli bianchi
Al trotto
hanno sciolto
le criniere brizzolate.
scricchiolano, cigolano
i pattini nelle scie, cantano…
Senza mai fermarsi
sulla strada gelata…
I contadini non avvertono
il gelo nelle mantelle…
I cavalli trotterellano
nella bufera,
Sulle tracce spazzate
avanti, avanti, avanti…
Semina i sentieri
La neve azzurrina,

la tormenta si scatena –
Tira, tira, tira…
Dentro la bianca brina
la valle
scompare, scompare, scompare…
Non è scivoloso…
È vicino, vicino
ai cumuli di fieno…
Nello sfarfallio
quasi non si vedono
le paludi, la selva…
Sopra il fieno
le torri-stolli…
Tagliano la neve
i pattini ferrati
Selva dopo selva…
Si sente il nitrito
Delle criniere brizzolate…
– Ehi voi! Ehi voi!
Fermi!
I fienili!
Arrivati!

Juli Taŭbin, Dall’infanzia ciascuno di noi è condannato (traduzione di Maya Halavanava)

Dall’infanzia ciascuno di noi è condannato
E paga i censi con il proprio sangue.
In terra bielorussa diventare un poeta
è più semplice che diventare qualcos’altro.
La carrozza spinge come il pesce catturato,
i rami delle betulle colpiscono i vetri,
e anche la mia poesia si getta in avanti
proprio come quel pesce nella rete.
…Ciascuno di noi è condannato dall’infanzia
e versa i gravosi censi per la condanna…

Dicono che la vita di un poeta,
rispetto ad altre, sia più amara.

 

Ales’ Dudar, Maggiolini (traduzione di Larissa Poutsileva)

Maggio fuori dalle finestre è lo stesso,
peno di sole, primavera e poesie …
Con le voci iridescenti
il fiore al fiore canta le melodie di primavera

La sera grigia si leva sul giardino,
ronza sotto il susino uno sciame di maggiolini.
La verità di ieri è nel loro ronzio,
nel loro ronzio sono i giorni passati.

Sì, sembra che tutto sia già finito da tempo
ma non si vincono i ricordi…
… come maggiolini ronzavano pallottole
e come pallottole ronzavano maggiolini.

In una stessa sera di oscurità lattiginosa
la portarono dall’avamposto.
Rabbia e odio brillavano negli occhi neri…
La spietatezza di quei tempi!..

Altri occhi, non neri ma di color dell’ala
di un giovane maggiolino…
Solo guardarli dentro e poi anche morire
oppure iniziare una nuova vita.

Fuori dalle finestre fioriva la gioia di maggio…
Perseguita!… Niente da fare…
Piani e ordini sono stati trovati.
… Hanno stretto le cinghie dei fucili…

La portarono via… Quei giorni erano senza
preghiera, nel calore bollente
del camminare incessante,
tra buche e fosse, in quegli anni
portavamo la rivoluzione avanti.

Ascoltai fissamente in piedi.
Il giardino magico tremava di silenzio …
Di botto un maggiolino ronzò all’orecchio
e cadde come una pallottola sulla finestra.

Lo guardai con stupore in silenzio
mentre cercava di aprire le ali…
Uno sparo… Un urlo… Da qualche parte
si spensero gli occhi
come l’ala del giovane maggiolino.

Con la vittoria arrivò la fama,
quindi puoi dispiacerti per le vittime?
Ognuno di noi era pronto a sacrificare
il suo cuore per la nostra causa .

Solo gli occhi a volte sfarfallano –
nei loro scorrono fiumi di odio…
Come maggiolini ronzavano pallottole
e come pallottole ronzavano maggiolini.

 

Uladzimir Duboŭka, So che anch’io morirò come tutti (traduzione di Vittorio Lossi)

So che anch’io morirò come tutti
so che anch’io morirò come tutti,
che dopo la morte non avrò più bisogno di niente.
E amo ancor di più tutto il vasto mondo
e questo cielo in parte variopinto.
Sentire tutto il dolore e tutta la dolcezza della vita,
tuffarsi nell’abisso della vita, a capofitto.
Sentire tutte le onde frusciare nei venti,
questa è la felicità! Dirà qualcuno: poca…
Per cambiare, fermare, forse non c’è più forza,
ma è possibile andare contro corrente.
Lungo la strada, anche se qualcuno ha già ricevuto il malocchio,
non cambierà il cammino, non si fermerà.
Perdi, selva, il tuo fogliame d’oro,
luccicavi di fiera bellezza.
Mi stregavi – per questo? per altro?
Con sussurri sommessi di accordi e accordi…

Jaŭhenija PflaŭmbaŭmGioia… (traduzione di Vittorio Lossi)

Tutto passerà, sbiadirà in luci e ombre
e la bellezza schiumerà nel pantano delle canizie,
e solo luminosi, irruenti desideri

non cesseranno di accendersi e spirare.
Con la freschezza precipita sempre l’iridescenza,
con le notizie ispirate inquieta il gelo e la pietà,
e di nuovo, nelle consonanze, tanto semplice e meraviglioso,
è infiammato il cammino fiorito nelle nebbie.
L’Universo della luce… Due lampi — gli occhi,
l’enorme vastità delle giornate nervose e fiere,
ma i sentieri serpi profetano l’immenso
e la gioia sfinita scompare dietro il pendio.
E vive di nuovo. Nel fremito dei secoli
intreccia anni pensierosi e brillanti,
e nel mosaico dei girotondi della vita
lascerà nuove indelebili impronte.

Fonte immagine: Wikipedia

image_pdfimage_print

A proposito di Salvatore Di Marzo

Salvatore Di Marzo, laureato con lode alla Federico II di Napoli, è docente di Lettere presso la scuola secondaria. Ha collaborato con la rivista on-line Grado zero (2015-2016) ed è stato redattore presso Teatro.it (2016-2018). Coautore, insieme con Roberta Attanasio, di due sillogi poetiche ("Euritmie", 2015; "I mirti ai lauri sparsi", 2017), alcune poesie sono pubblicate su siti e riviste, tradotte in bielorusso, ucraino e russo. Ha pubblicato saggi e recensioni letterarie presso riviste accademiche e alcuni interventi in cataloghi di mostre. Per Eroica Fenice scrive di arte, di musica, di eventi e riflessioni di vario genere.

Vedi tutti gli articoli di Salvatore Di Marzo

Commenta