La retorica del destino manifesto: il caso giapponese

La retorica del destino manifesto: il caso giapponese

La retorica del destino manifesto esprime la convinzione che l’America possa e debba esportare, al di fuori dei propri confini, la sua forma di libertà e democrazia. È un’espressione che è stata coniata nel XIX secolo, sostanzialmente per giustificare l’espansione sul continente che fu accompagnata dal genocidio dei nativi americani. Il destino manifesto potremmo dunque definirlo come l’espressione di quell’eccezionalismo americano che considera gli Stati Uniti qualitativamente diversi rispetto a qualsiasi altra nazione sviluppata nel mondo.
Ne deriva pertanto che gli interventi degli Stati Uniti nella vita degli altri paesi, e lo vedremo meglio nel caso su cui verte questo articolo, siano giustificati dalla convinzione della stessa America di essere la nazione prescelta, ovvero quella che dovrà guidare il resto del mondo verso la rigenerazione.

La retorica del destino manifesto nel caso giapponese

Nel 1945, al termine delle Seconda Guerra Mondiale, il Giappone viene occupato dalla Forze Alleate, ovvero le potenze vincitrici della guerra. Di nome si tratta di un’occupazione alleata, di fatto però essa viene controllata quasi unilateralmente dagli Stati Uniti. Il potere decisionale, per altro, viene gestito attraverso la figura dello SCAP (Comandante Supremo delle Forze Alleate), ovvero Douglas Mc Arthur. Egli non la concepiva come una semplice occupazione militare, ma come una vera e propria rivoluzione antropologica. In sintesi, Mc Arthur riteneva che si dovessero rifare i giapponesi, rimodellarli cioè sulla base di valori democratici e principi che riteneva degni di una nazione civile. Tutto questo significava dire che lo sviluppo del Giappone doveva essere misurato secondo degli standard universali e soprattutto degli standard concepiti in una prospettiva euro-centrica, la quale non teneva conto dell’insieme dei valori e dei principi propri dell’arcipelago giapponese.

Coerentemente a quella che è la retorica del destino manifesto, tra i principali obiettivi dell’occupazione che l’America si era prefissata vi era la democratizzazione del Giappone. Democratizzare il Giappone significava, dal punto di vista di Mc Arthur e del suo entourage, trasformarlo in un paese amante delle libertà individuali e soprattutto un paese amante della pace. La scelta di tale obiettivo, in realtà, era tutt’altro che casuale: l’America in quel preciso momento era ossessionata dal ricordo dell’attacco a Pearl Harbor, un attacco sferrato a tradimento da parte dei giapponesi, e dunque voleva a tutti i costi fare in modo che un avvenimento del genere non si ripetesse.

Inoltre, democratizzare il Giappone significava per gli Stati Uniti operare su una sorta di tabula rasa: gli USA ritenevano che il Giappone fosse ancora al punto di partenza, ovvero che non avesse un retaggio democratico. In realtà, l’arcipelago aveva fatto esperienza delle istituzioni democratiche e della diffusione dei valori liberali ai tempi dell’era Taisho (1912-1930), quindi non si trattava affatto di travasare la democrazia dagli Stati Uniti al Giappone, quanto piuttosto di rafforzarne le fondamenta già esistenti.

Il traguardo più importante che sia stato raggiunto durante l’occupazione, a detta di Mc Arthur, e che in una certa misura potrebbe anche essere considerato uno dei prodotti della retorica del destino manifesto, è la Costituzione del 1947. La carta costituzionale è stata concepita a tavolino dalle Forze Alleate, in particolar modo dagli Stati Uniti, le quali hanno rifiutato le bozze dei comitati giapponesi considerate estremamente conservatrici.

Diciamo che essa può essere considerata un prodotto della narrazione del destino manifesto perché concepisce i diritti e le libertà individuali quanto meno nello stesso modo in cui li avrebbe concepiti un americano. Infatti, una delle differenze più rilevanti rispetto alla Costituzione Meiji (1889) è il fatto che quella del ’47 riservò grande spazio ai diritti dei cittadini: essi sono minuziosamente descritti in 31 dei 103 articoli della Costituzione e comprendono, oltre quelli classici, diritti che non ritroviamo nelle costituzioni coeve, come ad esempio il diritto alla ricerca della felicità.

In conclusione, possiamo dire che l’occupazione del Giappone è durata 7 anni, terminando nel 1951. Quest’arco di tempo ha profondamente inciso sul popolo giapponese, il quale progressivamente ha fatto proprie le imposizioni degli Stati Uniti, intervenendo, però, quando lo riteneva opportuno per adattarle al contesto giapponese. 

Fonte dell’immagine in evidenza: Wikipedia 

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