L’egemonia culturale e la lotta politica per la formazione del senso comune

L’egemonia culturale e la lotta politica per la formazione del senso comune

Nella complessa struttura della società contemporanea, l’egemonia culturale si erge come uno strumento spesso inosservato, invisibile, ma che riesce comunque a plasmare le fondamenta del senso comune e dei valori sociali di interi gruppi e categorie di individui.

L’egemonia culturale e la sua funzione

In origine, il termine egemonia fu elaborato da Lenin, leader della Rivoluzione Socialista, per riferirsi al momento in cui, durante la rivoluzione del proletariato russo, quest’ultimo diventò egemone rispetto alla classe contadina arrivando ad influenzarla e plasmarla fino alla creazione della nuova società socialista.

Plasmare e influenzare sono dunque le parole chiave per arrivare a definire l’egemonia culturale come un vero e proprio dominio culturale e morale esercitato da parte di un gruppo sociale egemone che porta all’imposizione e all’interiorizzazione dei valori e delle idee di quel determinato gruppo attraverso la formazione, l’educazione e talvolta anche la violenza, fino ad arrivare alla creazione di un meccanismo implicito di controllo che ha come obiettivo la costante produzione di consenso.

Parliamo quindi di un meccanismo che porta con sé il significato di unità, ma secondo Antonio Gramsci non è mai realmente possibile definire l’egemonia (come anche l’egemonia culturale) come qualcosa di unitario, anzi, egli la definisce come qualcosa di fortemente instabile e pluridimensionale che ha bisogno di rinnovarsi continuamente per riuscire ad arrivare alla costruzione del consenso popolare e dunque dell’adesione dei vari gruppi alle idee del gruppo sociale dominante. Ciò che è interessante sapere, però, è che l’egemonia culturale e il consenso non si costituiscono esclusivamente attraverso quella che Gramsci definiva come guerra di manovra, che consisteva nell’assumere il controllo dello Stato e, attraverso quest’ultimo, costruire l’egemonia culturale e formare gli allora contadini e il senso comune, ma anche attraverso quella che egli chiama guerra di posizione. La guerra di posizione si distanzia da quella che è la guerra di manovra in particolar modo nelle società europee, dove la società civile (composta da media, istituzioni ecclesiastiche, famiglia e scuola) è più complessa e sviluppata. La guerra di posizione è qualcosa di lento e articolato che punta alla formazione del senso comune attraverso delle battaglie che si combattono in quelli che Althusser definiva apparati ideologici dello Stato, ossia Chiesa, famiglia, media, scuola e università. Tutte queste battaglie, dunque, non sono prettamente politiche ed economiche, ma sono anche culturali e riguardano l’appartenenza ad un gruppo, il genere e la sessualità: lo scontro, qui, è per l’egemonia culturale e per il senso comune. Secondo Gramsci, è inoltre importante che quest’ultimo sia messo da parte, perché impedisce alle masse e alla società di prendere coscienza, e le lascia soggiogate alle classi dominanti attraverso un’obbedienza cieca e irrazionale a dei valori che egli definisce “non spiegabili”.

L’egemonia come strumento di formazione del consenso e creazione del panico sociale 

A parlare di egemonia culturale è stato anche Stuart Hall, che parla di senso comune affermando che «è esattamente la sua qualità “spontanea”, la sua trasparenza, la sua naturalezza, il rifiuto dell’analisi delle premesse su cui esso si basa, la resistenza al cambiamento o alla correzione, l’effetto di riconoscimento immediato…[che] rende il senso comune contemporaneamente “spontaneo”, ideologico e inconscio».

Sarà lo stesso Hall a delineare poi, in Policing the Crisis e Resistance through Rituals, tre categorie di senso comune durante il primo dopoguerra: benessere, consenso e imborghesimento. Dalla lettura si può evincere che il consenso in quel periodo era costruito sulla base di un insieme di immagini ideali che comprendevano lavoro, disciplina, legge, famiglia e il valore dell’“inglesità”.  Valori che, a distanza di circa settant’anni, vengono costantemente ribaditi dagli organi politici di governo come strumento per aizzare le masse e sviluppare consenso.

E qual è la funzione di queste immagini ideali? Contrastare tutto ciò che si distanzia dall’ideale stesso. Creare un nemico comune che è opposto a quell’ideale e scaricargli contro la responsabilità di ogni malessere sociale, culturale e fenomenico. Usufruire dell’egemonia culturale per plasmare il senso comune, e consequenzialmente creare un nemico comune, significa automaticamente proteggere il gruppo sociale dominante, purificargli la coscienza da ogni tipo di macchia usando come mezzo di trasmissione principale ogni apparato ideologico di cui il gruppo sociale egemone è a disposizione. Il punto di forza di questo meccanismo, inoltre, è che il nemico comune è chiaramente identificabile nell’altro, in colui che appare diverso da noi, e in colui che non dispone dei mezzi di difesa necessari a contrastare l’immagine negativa veicolata dal gruppo sociale principale.

Ciò ci riporta ad un altro contenuto di Resistance through Rituals: il fenomeno del panico morale (riferito, in questo contesto, alle ansie sociali e al panico che attanagliavano la Gran Bretagna postbellica) e la costruzione dei cosiddetti capri espiatori.

A partire dagli anni ’50, in Gran Bretagna, troviamo infatti la nascita di diverse sottoculture (come quelle dei teddy boys, dei mods e dei punk) a cui furono attribuite la responsabilità della decadenza della società e dei suoi valori e dell’aumento della criminalità generale. Esse (come si analizza in Resistance) divennero, assieme alla comunità nera (come si analizza invece in Policing), dei veri e propri capri espiatori per dei problemi sociali che erano, in realtà, più profondamente radicati. È proprio qui, dunque, che si palesa la vera forza dell’egemonia culturale. In Policing si mostra infatti come il fenomeno del mugging, associato alla comunità nera, fosse soltanto un enorme velo utilizzato per nascondere, attraverso una psicosi sociale generale, dei problemi che avrebbero altrimenti messo in crisi il gruppo sociale dominante. Il panico generato attraverso gli “apparati ideologici dello Stato” ha infatti delle conseguenze pratiche e reali come ad esempio l’aumento degli arresti, del controllo della polizia nei quartieri neri e delle condanne estremamente più lunghe e severe a livello sociale. Lo stesso Hall, infatti, dice che «il panico morale ci appare come una delle forme principali di coscienza ideologica attraverso cui una “maggioranza silenziosa” è spinta ad appoggiare l’uso di misure sempre più coercitive da parte dello Stato, e presta la propria leggittimità a un “insolitamente intenso” esercizio del controllo».

Ma quali sono le possibili forme di lotta di classe utili a contrastare tutto questo? La prima sopra tutte è sicuramente la resistenza, che possiamo dividere in resistenza rivoluzionaria e rituale.

La resistenza rivoluzionaria, di base, riguarda la cosiddetta “guerra di manovra” che cita lo stesso Gramsci, in cui semplicemente si combatte attivamente e ci si ribella alla cultura dominante rovesciando quelle che sono le strutture di potere. Dall’altro lato, invece, la resistenza rituale riguarda il capire «come e in quali condizioni la classe ha potuto usare le sue “materie prime” materiali e culturali per costruire una gamma intera di risposte». In questo caso ci si riferisce quindi all’utilizzare la cultura stessa come strumento di lotta e resistenza, discostandosi da quello che è il conformismo generale.

Fonte dell’immagine per l’articolo: Pixabay

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